recensioni dischi
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LA VAGUE  "Pop mirage"
   (2016 )

Impropriamente – a mio sindacabile parere – accostati agli Eurythmics o, per restare ai nostri lidi, ai pionieri Krisma, i La Vague sono un duo formato da Francesca Pirami, vocalist talentuosa ed imperiosa, e da Alessandro Corsi, sontuoso bassista, multistrumentista e compagno di Francesca sul palco e nella vita. Per quanto mi riguarda, la divina Francesca, ugola squillante e prepotente, potrebbe anche interpretare le otto tracce di “Pop mirage”, terzo album dei La Vague in sette anni, cantando in swahili le istruzioni del minipimer o le condizioni contrattuali di una polizza assicurativa: il risultato non cambierebbe, e “Pop mirage” funzionerebbe ugualmente per alcuni ottimi motivi che vado di seguito ad elencare. In principio furono i suoni: rotondi, calibrati, piacevolmente invadenti, saturi da non concedere requie uditiva né spazio al tedio, ineludibili da una produzione elegante e così smaccatamente contemporanea. Rimarchevole poi l’assodata destrezza nel padroneggiare una materia di confine ardua da ricondurre a normalità: il connubio tra elettronica e strutture post-wave è affare delicato, facilmente incline a ricadere entro schemi prevedibili o scadere in un synth-pop scipito e insipido. In terzo luogo, gli incastri e i ganci, i call-and-response tra la voce e i lick imprevedibili del basso restituiscono la vera cifra stilistica dei La Vague, il criterio distintivo rispetto ai blasonati modelli citati in apertura, ciò che ne decreta l’unicità e ne costituisce il tratto saliente. Infine: Francesca è anche attrice, ed il piglio attoriale che innerva ogni traccia acquista scintillante evidenza negli accenti calcati e nelle inflessioni, nelle pause e nei crescendo, nella sua capacità di offrire un’interpretazione espressionista su un substrato che impasta human (il basso di Alessandro) e machine (l’elettronica dilagante), innalzando questa peculiare sintesi a livelli di assoluta eccellenza. Esaurite le premesse, che varrebbero da sole l’alloro, se vogliamo possiamo anche disquisire delle canzoni. Ce ne sono otto in “Pop mirage”, ciascuna fatta scrigno di preziose divagazioni in territori tra loro limitrofi: in apertura la title track – uno dei due brani in lingua italiana - sciorina su un tappeto di elettronica incalzante un testo recitato intriso di manipolazioni, doppie voci ed effetti assortiti che ricordano la Meg meno accomodante, cedendo la scena alla impetuosa linea di basso – riecheggiante il “Peter Gunn theme” - che guida la successiva “Little village” su linee funky sporcate da qualche dissonanza à la Primus. “Revenge” inizia con un passo da primi Police su un reggae scarnificato che collassa in una bossanova truccata impreziosita dagli arabeschi di Francesca, la cui vocalità si fa addirittura monumentale nella lounge à la Nouvelle Vague di una “Nature” trafitta dai contrappunti della Mbira (strumento africano) e a suo modo violenta nel groove frenetico in francese di “La chance”, dove un pulsare intermittente ed improvvisi lanci in velocità sventrati dal basso tellurico di Alessandro conducono a metà strada tra chansonne e rimembranze della Grace Jones più aggressiva. “Margherita Nikolaevna”, di nuovo in italiano, rivisita Bulgakov su un’aria retrò gentilmente ossessiva capace di materializzare dal nulla la malia sopraffina della migliore Antonella Ruggiero, prima di placare la propria verve d’antan nel reggae levigato di “Lightness 2016”, riedizione riarrangiata del brano incluso in “Cabaret electrìc” del 2012. Quando cala il sipario sul breve divertissement auto celebrativo di “Pop out”, rimane ad aleggiare in un’aria sovraccarica di elettrica creatività la vivida sensazione di trovarsi al cospetto di un album intenso ed opulento, frutto di un lavoro – concettuale, scenico, sonoro - le cui infinite sfaccettature affascinano e trascinano con sé sulla sfavillante ribalta del teatro globale dei La Vague. Chapeau. (Manuel Maverna)