recensioni dischi
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THE CONFORMISTS  "Divorce"
   (2016 )

Non si esce vivi dagli anni Ottanta - cantava qualcuno che ben conosciamo -, ma nemmeno dagli anni Novanta, aggiungerei. Ebbene sì, perché c’era una volta il punk, che poi fu inevitabilmente post-punk; e c’era oltreoceano l’hardcore, che poi fu inevitabilmente post-hardcore. Ci fu – ed ancora vive, longevo e mai domo – il rock tutto, che divenne per breve tempo post-rock, salvo riprendersi il trono senza troppa difficoltà. E un giorno venne un uomo che si chiama Steve Albini, un tizio secco ed occhialuto che pensò bene di rivoluzionare i canoni del punk, dell’hardcore, del rock tutto e di dar vita ad un modo schizoide, nevrotico ed a suo modo violentissimo, di intendere l’universo indie, un mondo rovesciato fatto di sole inversioni, un gioco non indolore che edificò nuove cattedrali in cui predicare l’altra faccia della medaglia. Ed è proprio l’immarcescibile Steve – al quale sia eterna gloria – a produrre il nuovo lavoro dei The Conformists, quartetto di St. Louis, Missouri, gente che suona da vent’anni senza fama e con qualche lode, e che pesca con “Divorce” il jolly del genietto di Pasadena. Fossimo nel 1990 questo album farebbe gridare al miracolo, lo saluteremmo come foriero di pionieristica innovatività, come album di rottura, intuizione seminale, frattura di schemi, rivoluzione sonica: ma siamo nel 2016, e questo tipo di musica sgraziata e agonizzante - che dopo dieci secondi della prima traccia ti fa pensare: “Qui c’è di mezzo Albini” – non sorprende più, per quanto magistralmente possa essere concepita ed eseguita. Qui non è mai in discussione la perizia tecnica dei quattro né la loro capacità di padroneggiare l’intricata matassa di una musica ingarbugliata e dolente come si conviene, bensì l’opportunità di rilasciare un prodotto la cui offerta appartiene ad un passato artisticamente fossilizzato in una bolla spazio-temporale. E allora avanti con palesi reminiscenze di June of ’44, Shellac, Jesus Lizard (eco fortissima in “Our baseball careers”), Disappears, Sightings, Fugazi: ritmi zoppicanti trafitti da dissonanze, scordature, clangori metallici, urla belluine à la Guy Picciotto alternate a falsa quiete, math e post fusi in una miscela che – ahinoi – ha fatto il suo tempo e che oggi non spaventa più né riesce a sorprendere come avrebbe fatto venticinque anni fa. Limite e palese dimostrazione di arcaica ridondanza è l’interminabile “Meow”, che sciorina addirittura vestigia degli inarrivabili For Carnation di Brian McMahan, indugiando su figure reiterate metronomicamente per collassare in sette minuti di niente, tra rumori di fondo lasciati andare alla deriva come in una piece da off-off-Broadway. Il fastidio prevale sullo stupore, che si è cristallizzato con “At action park” e dissolto all’indomani di “Terraform”, e che in “Divorce” soccombe ad un esercizio di stile fine a se stesso: fuori moda, fuori tempo massimo, semplicemente anacronistico. (Manuel Maverna)