recensioni dischi
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DIIV  "Is the is are"
   (2016 )

Creatura sibillina e sfuggente, i DIIV di Zachary Cole Smith, torturato drop-out newyorchese classe ’84 con trascorsi burrascosi nella carriera e nel privato, rappresentano una band avulsa da mode e logiche di mercato, act ammantato di un’aura rarefatta, ossianica, suadente e inafferrabile. Riflesso ed emanazione della tormentata indole del loro leader, ideatore, fondatore, padre e padrone, i DIIV nascono come progetto solista di Smith, già chitarra in svariati gruppi della Grande Mela e creatore di un sound la cui fascinosa e tossica intensità è pari almeno alla melanconica attitudine che lo anima. Stemperate le asperità di “Oshin”, sfavillante debutto datato 2012, le diciassette tracce di “Is the is are” fluiscono in un continuum inebriante fatto di evidenti rimandi ed altrettanto palesi influenze, impudicamente disseminate ad arte in un patchwork ondivago e mesmerizzante. Frasi distillate di chitarra fungono da contrappunto costante, suggerendo armonie cicliche tendenti all’ipnosi, mentre un drumming monotono ed essenziale à la Moe Tucker ripete all’infinito il suo 4/4 di incrollabile regolarità, sorretto da un basso pulsante e carezzevole. Il ritmo a tratti si velocizza o rallenta impercettibilmente in una personale rivisitazione del verbo shoegaze trafitta dal canto dolcemente monocorde di Zachary, sempre composto e morbido, protetto da effetti e celato da una coltre di post-pop aggraziato, psichedelico nelle intenzioni, mai violento o nevrotico. Se l’abbrivio di “Out of mind” e “Under the sun” rimanda alla ballate più rilassate dei Cure, e nonostante su “Bent (Roi’s song)” o “Loose ends” si stagli prepotente l’ombra lunga dei My Bloody Valentine, il copione conosce soltanto variazioni minimali, quasi fosse un incessante soliloquio errabondo, un flusso di coscienza delirante fatto di testi visionari, di immagini sfuocate, di indizi incerti, di colori sbiaditi ma ancora vividi: “Is the is are” è un mantra vivido e penetrante che avvolge ed attrae a sé grazie ad intrecci in apparenza sempre uguali a sé stessi, un percorso sinuoso fra le rifrazioni di “Dopamine” e l’oscurità di una “Blue boredom (Sky’s song)” che Sky Ferreira – compagna di Smith nella vita – intona in un mood lascivo e decadente. La tirata quasi-kraut di “Valentine” (ad un passo dai The Pains Of Being Pure At Heart di “Belong”), il basso inconfondibilmente gallupiano di “Yr not far”, le saturazioni laceranti di “Dust”, il generale suono laid-back che dilaga nella coda svenevole fra riverberi e dilatazioni di “Take your time”, nell’up-tempo squadrato della title-track, nel feedback modulato con garbo della allucinata “Mire (Grant’s song)” costituiscono il trait-d’union fra brani di tesa omogeneità dalla condotta spedita e urgente. Il maelstrom di controllato fragore si placa unicamente nella chiusa dimessa di “Waste of breath”, agonizzante compendio di frustrata melodiosità sublimato in un crescendo tumultuoso ed inquieto, suggello ad un album che regala sessantatre minuti di sbilenca beatitudine sullo sfondo chiaroscuro ed agrodolce di una sinfonia di elegiaca bellezza. (Manuel Maverna)