recensioni dischi
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JULIAN MENTE  "Non c'è proprio niente da ridere"
   (2016 )

Introdotto da una sinistra, maligna veemenza, “Non c’è proprio niente da ridere” è il nuovo lavoro in studio per il quartetto umbro dei Julian Mente, band originaria di Foligno formatasi dieci anni orsono e messasi in evidenza grazie ad un approccio ruvido ed urticante sperimentato ed affinato nel corso di una intensa attività live a fianco di nomi illustri dell’indie-rock nostrano (Marlene Kuntz su tutti). Sospinto da un’intima virulenza e da un linguaggio talora spregiudicato e viscerale (“Le belle giornate”, “Porno”), l’album si destreggia crudo e frontale fra rimandi più o meno espliciti alla scuola albiniana, con puntate decise nel post-hardcore fugaziano e nelle divagazioni psicotiche dei Jesus Lizard, offrendo sporadiche false aperture a suggestioni melodiche (“Se solo tutti noi”), prontamente inghiottite in un magma di distorsioni e furia iconoclasta (“Stare bene oggi”). Fra echi di One Dimensional Man, rabbia abrasiva à la The Death Of Anna Karina (“Mentre lei dorme”, terrificante apertura), guizzi memori dei Verdena che furono (“Se chiudi gli occhi”) e strutture ritmiche sghembe che ricordano il Management Del Dolore Post-Operatorio di “Auff!” (“Il tasto off”), i quattro erigono un impenetrabile muro di rumorismo affilato e sbilenco dilaniato da un drumming spezzato e da linee di basso imprevedibili, una coltre di negatività aspra ed ininterrotta trafitta dalla imprescindibile voce – stentorea, ora filtrata, altrove irata, mai scomposta, sempre prossima a repentini mutamenti – di Diego Fratini. Ne scaturisce un disco impetuoso e urgente, ostico e costipato, vetrina di fosca irruenza che mostra varie gradazioni di violenza mai cedendo a compromessi né ammettendo tregua; l’andamento nevrotico dei brani è mirabilmente supportato da tessiture che lambiscono addirittura il math-rock (“Terra-cielo”, “Lo squallore disgraziato”), compatta carrellata di trame psicotiche sciorinate con una stizzita insofferenza di rara intensità, preludio ad un album cupo e tesissimo che raggiunge vette di stordente frenesia, opera che rinuncia a qualsiasi frivola piacevolezza rivelandosi esaltante nella sua rude marzialità. (Manuel Maverna)