recensioni dischi
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KIM MYHR  "Bloom"
   (2016 )

A due anni di distanza dall’acclamato “All your limbs singing”, il chitarrista e compositore norvegese Kim Myhr approfondisce le intuizioni che gli valsero allora il plauso della critica rifinendo le cinque nuove tracce di “Bloom” grazie sia all’ausilio dell’elettronica sia ad un ricco lavoro di cesello svolto in studio. Intervenendo sulla rifinitura e sulla definizione delle sonorità e sul loro affinamento per il tramite di sovrincisioni ed inserti che spaziano dalla musica ambientale a divagazioni avanguardistiche, Kim amplia il raggio d’azione della sua 12 corde espandendone i confini e sublimandone l’intento concettuale, nella genesi come nella realizzazione. Quella condensata nei trentasette minuti di “Bloom” è musica circolare che si ripete sempre identica a sé stessa, tra interferenze ronzanti, suggestioni atonali e disturbi in crescendo (“Sort sol”), musica astratta che rinuncia a costruire melodie preferendo affidarsi talora ad un pulsare intermittente (“O horizon”), altrove a dilatazioni che invitano ad una stralunata catarsi (l’arpeggio straniante, quasi da meditazione ayurvedica, di “Swales fell”). L’incedere mantrico dell’album è sottolineato ed amplificato dallo sferragliare metallico e dai riverberi esangui di “Peel me”, forse il solo tentativo di disegnare una linea armonica che viene sì suggerita, ma presto soffocata da un nuovo battito in sordina; è un appiglio effimero, l’unico approdo accessibile prima che i dieci agonizzanti minuti di “Milk run sky” – che iniziano come certe interminabili litanie di Kozelek, senza tuttavia divenire canzone né cercare sviluppo – naufraghino nel nulla, arrancando aggrappati attorno ad un unico accordo di chitarra, inghiottiti da piccoli screzi rumoristici e da una generale sensazione di ipnotico smarrimento. Musica per idee, lontana ed inafferrabile. (Manuel Maverna)