recensioni dischi
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MARABOU  "The end of the rainbow"
   (2016 )

Il convincente esordio solista di Marabou – al secolo Giovanni Alessandro Spina da Catania – è in bilico tra il lucido electro pop di M83 e Caribou (a cui forse il nome d’arte si richiama) e il lato più celestiale e meno cupo del trip hop firmato Massive Attack, unito alla meravigliosa brillantezza dei Chromatics.

Il percorso musicale di Marabou rappresenta il perfetto esempio di una lenta e complessa maturazione stilistica e ricerca sonora: dalle prime esperienze in band locali allo spostamento a Milano, capitale artistica – almeno per quanto riguarda la musica – del paese e snodo di tante realtà importanti, città dove i numerosi gruppi pop e rock sono affiancati da notevoli movimenti di elettronica, hip-hop, e progetti sperimentali. Il bisogno di essere sé stesso, di esprimere le proprie sensazioni e di essere una sorta di “one-man-band”, ha portato Spina a concentrare le sue forze e idee in un percorso solista che con “The End of the Rainbow” abbraccia un sentito minimalismo. I suoi suoni sono vellutati, semplici ma mai banali, a conferma di un sentiero da poco intrapreso e ancora pieno di frammenti e sperimentazioni, che risultano vincenti per la schiettezza con le quali sono spiattellate – sempre dolcemente – contro l’ascoltatore.

L’album è un concentrato soffice di downtempo e synth pop, in cui raffiorano elementi di dream pop, shoegaze e persino trip hop. La voce riverberata che ci culla su un tappeto di note psichedeliche in “Into the Blue” è il manifesto che rende più giustizia all’opera intera; i richiami al canadese Caribou e alle esplorazioni cosmiche di Tricky risultano evidenti soprattutto quando la voce diventa sempre più un tutt’uno con l’atmosfera sottostante. “Into the Blue” segue una “Garden’s Dream” che già aveva dato modo a chi ascolta di capire le possibili direzioni di Marabou nell’universo – a volte fin troppo in espansione – dell’elettronica. Ciò che più sorprende è comunque l’abilità dell’autore di colpire anche con sonorità ruvide senza che la dolcezza complessiva venga meno. “Error Number Ten” è giocata interamente su un sintetizzatore tranquillo che fa a botte con drum machine e colpi di chitarre e tastiere dissonanti; la dolcezza però prevale, la sensazione positiva alla fine vince quella negativa e anche il finale del brano sembra provarlo, con la sua lenta evoluzione in una dimensione più rilassata.

Non manca certo il coraggio all’interno di questo progetto. Il lato cupo e roccioso del disco è ben rappresentato da una “Laboon” bellissima e infernale, che sembra uscire da dei Radio Dept. più aggressivi o da dei Japandroids elettronici. Gli archi finali caratterizzano una outro tempestosa e magniloquente, massimalista, che paradossalmente stona un po’ con tutto il resto del disco, ma che proprio per questo gli dà ancora più vigore e ambizione. Anche “Lovely” si stabilizza su un sound notturno e cavernoso, ma la vocalità brillante e appassionata che la avvolge la fa diventare quasi cantabile e molto orecchiabile, mentre “Love Story” ha in sé qualcosa di “Trans-Europe Express” convogliato nel secondo decennio del XXI secolo: alla tipologia di elettronica che prevale oggi, qui Marabou unisce l’esplorazione cosmica dei tedeschi degli anni ’70.

Un dubbio potrebbe sopraggiungere: queste due facce del disco – una armoniosa e solare, l’altra cupa e notturna – sono giustapposte senza soluzioni di continuità, come a indicare una perenne guerra per la sopravvivenza che ciascuno di noi combatte con felicità e tristezza, gioia e dolore, o esistono forse stadi intermedi, in cui non possiamo davvero dire come ci si sente? L’intermezzo strumentale “Simon”, che collega la tutto sommato allegra “Love Story” alla fumosa “Laboon”, sembra rappresentare una sorta di autoriflessione, un momento di stasi prima della tempesta, che pre-sentiamo grazie ai movimenti frenetici dei sintetizzatori che sembrano anticipare qualcosa di grosso che sta per succedere. Le “somme tirate” di “Shake Me” e “Sunset” sono – ciascuna a suo modo, con diversi gradi di consapevolezza – il trionfo di questa dualità inscindibile e inevitabile, che caratterizza l’album e le esistenze degli esseri umani; la ricerca di bellezza è tutto, come l’armonia e la melodia pop che trasuda dalle due canzoni conclusive, ma l’ombra della morte è dietro l’angolo e si vede nelle parole sussurrate, piene di paura, e nelle dissonanze aggressive che concludono “Shake Me”. Nell’ossessiva ripetizione del gioviale beat di “Sunset”, però, e nella sua ripresa frammentaria in ghost-track, ciò che sembra avere la meglio è la positività, dove Marabou cerca di suggerirci (forse) che non solo nei film scontati il bene può ancora trionfare, e che da qualche parte intorno a noi esiste ancora tanta bellezza. (Samuele Conficoni)