recensioni dischi
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MILES DAVIS  "Sketches of Spain"
   (1959 )

Percorrendo gli interminabili rettilinei delle ampie strade dell’Andalusia o della Mancia si possono incontrare, in posizione strategica, alla sommità di collinette brulle, enormi sagome di tori neri. Da lontano sembrano miraggi, ma alla fine del rettilineo ci attende una realtà rassicurante e un po’ deludente: sono solo cartelloni pubblicitari di un brandy spagnolo, peraltro ottimo.

Se invece capita di scorgere all’orizzonte, proprio di fronte alla sagoma di un toro, quella allampanata e al tempo stesso panciuta di un omino che suona imperturbabile la tromba, allora è probabile che si sia sotto la potente suggestione dell’ascolto di “Sketches Of Spain”, un vero miracolo di equilibrio tra jazz e musica spagnola, classica e popolare. La grande protagonista di questo prodigio è l’impareggiabile tromba di Miles Davis, così duttile da saper assumere l’agilità e la scioltezza di una chitarra flamenca, ma non si può negare che una grossa fetta del merito di questo capolavoro è di Gil Evans, capace di creare un ricco tappeto di suoni orchestrali in bilico tra jazz e classica, base perfetta su cui il solista può scatenare la sua tecnica strabiliante e la sua fantasia senza limiti.

E inoltre capace di adattare a questo “sound” alcune splendide melodie, pescate sia dal repertorio di compositori “dotti”, sia dall’enorme serbatoio dei motivi popolari. Per quanto tutto il disco viaggi a quote altissime, il pezzo pregiato è la versione jazz (ma non troppo) dell’Adagio del “Concierto de Aranjuez” di Joaquin Rodrigo, compositore cieco e, come spesso accade in questi casi, ipersensibile, al punto di riuscire a trasformare la semplice sensazione dello stormire delle foglie nel parco del Palacio Real di Aranjuez in un motivo immortale, molto noto sotto forma di concerto per chitarra e orchestra, anche ai non classicomani.

Come abbiano fatto gli americani Miles Davis e Gil Evans a calarsi così profondamente nella malinconica passione, tutta latina, di cui è impregnato questo splendido tema è un mistero che rimarrà tale, ma al tempo stesso è un segno evidente di grande apertura mentale verso ogni tipo di suggestione, comprese quelle date di musiche ben lontane dal jazz, base della loro formazione. Il risultato è semplicemente da brividi: certi toni lancinanti della tromba sono un vero grido di dolore, che si avverte a più riprese, sempre assecondato dal suono ricco ma mai invadente di un’orchestra dall’organico non enorme.

Altra tappa fondamentale di questo viaggio in Spagna è la “Danza ritual del fuego” di Manuel de Falla, altro importante compositore del ‘900, di scuola impressionista. Qui il brano è chiamato “Will O’ The Wisp”, e pur nella sua brevità riesce a catturare la misteriosa magia delle danze gitane andaluse, anche in questo caso con sorprendente capacità di assimilazione sia da parte del solista che dell’orchestra. Molto interessanti anche gli altri pezzi, grazie all’abilità di Gil Evans di tradurre in splendide costruzioni orchestrali impressioni raccolte qua e là dall’ascolto di musica etnica spagnola: è il caso di “The Pan Piper”, con il suo andamento apparentemente statico, che lascia ampio spazio alla fenomenale improvvisazione di Miles Davis, e di “Saeta”, dall’incedere marziale, bandistico, in origine una musica destinata alle processioni, qui una solida base ritmica su cui Miles Davis folleggia, dando un evidente saggio di pulizia del suono.

Ma tra questi brani non classici spicca soprattutto “Solea”, ricavato da una danza di origine andalusa, trasformata da Gil Evans in un cupo sottofondo ossessivo, africaneggiante, trafitto dal lamento acuto e implacabile di una tromba ancora una volta perfetta. Perfetta come del resto in tutto il disco, corredato anche (come CD) da “bonus tracks” comparative assai interessanti. Per quanto si possa stentare a crederlo, questa autentica lezione di contaminazione tra generi musicali è datata 1959, ma si sa che Miles Davis ha sempre avuto l’occhio lungo, e probabilmente aveva già intuito la potenzialità contenuta nelle varie musiche etniche.

Certamente la stessa intuizione aveva avuto Gil Evans, e il frutto dell’incontro di queste due menti aperte, entrambe in stato di grazia, è questo classico del jazz, che ha il dono di spingersi anche un po’ oltre il jazz. (Luca "Grasshopper" Lapini)