recensioni dischi
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JULITHA RYAN  "The winter journey"
   (2017 )

Pervaso da un’allure proto-aliena, retro-futuristica, o soltanto affogato in una bolla di esoterismo mantrico, “The winter journey” è il secondo album dell’artista e multistrumentista australiana Julitha Ryan, talentuosa e disallineata cantautrice di Melbourne che ebbe modo di mettersi in luce nel 2012 con il ben accolto esordio di “The lucky girl”. Intriso di suggestioni psichedeliche che arricchiscono e densificano l’ossatura prettamente pianistica e cameristica del debutto, imperniato su arie introverse che flirtavano col gospel (“The preacher”), o costruivano meste armonie crepuscolari (“Amsterdam spring”, quasi i Radiohead), “The winter journey” cambia angolazione, scegliendo di svilupparsi lungo traiettorie sì già esplorate, ma ora esaltate da una più compiuta rifinitura formale. Album che ha radici in Italia, prodotto e suonato da Giovanni Calella (Adam Carpet) con la collaborazione di una band nostrana che include metà dei Guignol, “The winter journey” incanala talora le proprie alte aspirazioni verso un territorio free che ben si addice al lirismo evocativo di Julitha: come sacerdotessa dedita alla celebrazione di culti ancestrali, la Ryan snocciola un rosario pagano dalle sonorità ipnotiche, dipanate in dilatazioni mesmerizzanti e progressioni space che mirabilmente ne assecondano il crooning, sospeso tra angoscia e sogno. Programmatica ed emblematica è in tal senso l’apertura di “Bonfire”, sghemba ballata decadente e incalzante impreziosita da tessiture neoclassiche che le conferiscono un tono melodrammatico ed intimamente tragico (“Nothing between me and death/there’s only the cold empty air/I’m gonna build a bonfire/of everything I know”), a metà fra Marianne Faithfull e Joanna Newsom. Crogiolandosi in atmosfere distopiche delle quali scopertamente si nutre e si bea, l’album sa irretire imbastendo una maglia avvolgente ed estatica di melodie stralunate, dalla virata psichedelica di “Like a jail”, che sfocia in un bislacco blues da spy-story, fino all’ossessiva cadenza in minore di “Woman walks her cat”, contrappuntata da un pregevole accenno di tromba ad accrescerne il pathos; inattese giungono le suggestioni tropicaliste di “Zeehan” o il lieve passo da dance-hall anni ’60 di “Big brass bell”, brani più disimpegnati che stemperano la plumbea accoppiata formata da “Memento” e da “Something’s gotta give”, breve e funerea la prima, rallentamento pinkfloydiano la seconda. La chiusura, affidata ai dieci minuti lisergici di “There is no turning back”, monocorde crescendo hippie che naufraga in una coda percussiva, rappresenta l’ideale commiato di un lavoro impossibile da scindere in parti: opera concettualmente piuttosto complessa e non priva di ambizione, “The winter journey” va assimilato come un discorso organico e coeso la cui fitta intensità lievita per gradi fino a raggiungere un climax equivalente al compiersi di un rituale. Altero, straniante, visionario. (Manuel Maverna)