recensioni dischi
   torna all'elenco


75 DOLLAR BILL  "Wood / metal / plastic / pattern / rhythm / rock"
   (2017 )

Avvolto nella spessa coltre protettiva di una fitta bruma concettuale, sebbene in realtà affidato ad un pulsante substrato ritmico che ne accresce la vitalità, il secondo album del duo psych-avant newyorchese 75 Dollar Bill, rilasciato a fine 2016 ed accolto con favore pressoché unanime da parte della critica d’oltreoceano, viene ora pubblicato anche per il mercato europeo su etichetta tak:til, emanazione della più nota Glitterbeat. Rispetto agli esordi di “Wooden bag”, nelle quattro tracce strumentali di “Wood / metal / plastic /pattern / rhythm / rock” - trentanove minuti di trance mesmerizzante, compendio stordente di ripetizioni modali che viaggiano sul sottilissimo filo tra sperimentazione, musica concreta e valorizzazione di elementi mutuati dal folklore mediorientale ed africano - Rick Brown, percussionista non convenzionale che detta il tempo battendo con un sonaglio sulla cassetta di legno su cui siede, e Che Chen, chitarrista e multistrumentista di area jazz-avant impegnato in svariati progetti di matrice prettamente colta, si avvalgono per l’occasione del determinante apporto di cinque musicisti, tra cui sax, tromba, contrabbasso e viola. Post-qualcosa o pre-qualcosa, forse tardo rigurgito di no-wave, musica ossessivamente ciclica mai torva o inquieta, psichedelica nell’effetto e cerebrale nell’intento, quella di Brown e Chen è un’espressività che travalica il concept elitario di arte-per-l’arte pervenendo ad una sintesi ipnotica fatta di droni, riverberi, costruzioni ardite e strisciante groove, un ribollire continuo di suoni penetranti, beat metronomico – ma umano – e movimenti in lento, inesorabile divenire. Dichiarazione programmatica i sette minuti dell’opener “Earth saw”, loop ubriacante giocato sui diversi tempi della chitarra e del tamburello, che di continuo si inseguono ricongiungendosi ogni tre battute in un gorgo che confonde e rapisce; prevalente nei dodici minuti di “Beni said” l’accento etnico, col finale mutato in una pizzica sbilenca che emerge – non si sa come – dal marasma elettrico-percussivo fin lì predominante; spiazzante il tribalismo powwow di “Cummins falls”, quasi un raga che cresce vorticoso fra la propulsione delle maracas e le acciaccature snervanti della chitarra di Chen. Debordanti infine i quindici minuti della conclusiva “I’m not trying to wake up”, tremenda arrampicata monocorde contrappuntata da fiati e archi fusi in un bailamme di misteriosa discendenza, suggello ad un lavoro che ambisce forse ad una trascendenza quasi zen, o che intende suggerire contaminazioni possibili fra mondi antitetici. Figure, progressioni, idee: scenari evolutivi in un continuum ancora da definire. (Manuel Maverna)