recensioni dischi
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PETROLIO  "Di cosa si nasce"
   (2017 )

Ingabbiato in una selva oscura di sonorità incupite e claustrofobiche, “Di cosa si nasce” segna il debutto discografico sotto il moniker Petrolio di Enrico Cerrato, musicista astigiano già anima di svariati progetti caratterizzati da un comune sentire tetro ed inquieto. Lavoro complesso la cui filigrana lambisce la trascendenza, grazie ad una ininterrotta compenetrazione di elementi antitetici, “Di cosa si nasce” si muove sinistro e sinuoso lungo direttrici che uniscono e rimpastano crismi mutuati da sottogeneri di nicchia, pervenendo ad una sintesi che sa di elettronica sporca e imbastardita, un flusso magmatico e magnetico simile - a tratti - alla versione inacidita delle trame visionarie di Gianluca Lo Presti. Esordisce “El coco (do you know babau?)” ad un passo cadenzato che dispensa ossessioni assortite, qualcosa di inafferrabile che si situa fra gli scenari di apocalittico abbrutimento degli OvO e le impalpabili variazioni psych degli Heroin In Tahiti, una litania sofferta che rimanda a maligni presagi, soffocante requiem che opta per un linguaggio contemporaneo capace di atterrire senza concedere spiragli di luce alcuna. Aperta dalle note gravi di un pianoforte profondo, martellante, snaturato nella sua armonia da un’aria plumbea à la Cure (periodo “Faith”) e sventrato dai contrappunti rumoristici che ne pervertono la melodia relegata - quasi sepolta - sullo sfondo, “Eating lights slowly” si attorciglia su un mantra psicologico affine alle conturbanti saturazioni dei Flying Saucer Attack, digradando nella nebbia shoegaze, subito agitata dalle staffilate metronomiche della drum-machine e sfigurata dalla reiterazione campionata di urla scomposte, di “Le spit’s treee”, sabba demoniaco che collassa in un vortice cacofonico. Musica implosiva, sci-fi, retrofuturismo, rilettura di canoni o profezia muta che sia, “Di cosa si nasce” si incunea in un ipnotico cul-de-sac memore dei primi Pink Floyd nei sette minuti de “Le bot noir”, ritmica stordente su toni bassi ed uso dei piatti come sferragliare di catene dagli inferi, vomita rigurgiti industrial e feedback da proto-shoegaze nella contorsione allucinata de “La mater de odio”, lascia riecheggiare un sibilo lancinante nella conclusiva “VS:US”, risolta in una deflagrazione che toglie il fiato senza aggiungere mai un che di rinfrancante, negazione del godibile, funereo manifesto di tumultuosa irrequietezza. Musica straziata che implode di continuo su sé stessa in un tripudio di suoni agonizzanti che non lievitano mai, fedeli alla voluta rinuncia a svilupparsi, “Di cosa si nasce” è un incubo mostruosamente reale che travalica l’idea di piacevolezza nel nome di una ricerca concettuale sublimata da un incedere soffocante, a suo modo maestosamente minaccioso. (Manuel Maverna)