recensioni dischi
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BLACK WINGS OF DESTINY  "The storyteller part 2"
   (2017 )

A distanza di tre anni dalla prima parte, i focosi Black Wings of Destiny tornano con la loro ineguagliabile freschezza e quell’energico mix di metal, stoner e rock, pronti a esplorare gli abissi dell’animo e le oscurità dell’inconscio, a dar seguito ad alcune storie accennate nella prima parte, a raccontarne di nuove, e a creare nuovi orizzonti di attesa per i lavori successivi.

In “The Storyteller”, come il titolo suggerisce, si raccontano storie. La vedova Jane è il collante più evidente dei due volumi – ora è in copertina, e sembra veicolare tutta l’aggressività e il disincanto che il gruppo canta nel disco – insieme all’altro personaggio misterioso che è Dillinger, e all’amore che la band prova per il grande Edgar Allan Poe. Il risultato è un disco più cupo ma anche più “semplicemente” metal del precedente – benché le influenze e i generi che si fondono siano sempre tantissimi – che non ha paura di scavare nelle contraddizioni e nel brivido che è la vita umana.

“Black Knife”, traccia d’apertura, è la cartolina adatta a descrivere l’umore dell’opera: un cantato aggressivo ma “filosofico”, ponderato, pronto a dire la sua sull’esistenza e sui problemi a essa connessi. “Jane the Hunter” continua percorsi già in parte tracciati nelle precedenti esperienze dei membri del gruppo, sia dagli stessi Black Wings sia da Sick Head e Concrete Block. A un fondo metal si unisce un cantato grunge malinconico e disperato, che però rifiuta di adattarsi alla contingenza e vuole lottare fino all’ultimo secondo per la propria indipendenza intellettuale e fisica. “Venom” è una scarica di elettricità pericolosa e purissima, che fa sobbalzare l’ascoltatore fino a portarlo allo sfinimento. Le chitarre sono ben curate e la voce è sempre potenziata nei suoi riverberi e nelle sue sfumature. Così anche “Dillinger Is Dead”, attraverso queste due componenti, esprime un disagio enorme in cui si colgono, però, alcune speranze: il futuro è in qualche modo ancora da scrivere e la lotta per la sopravvivenza deve continuare in ogni caso.

Il disco non perde la sua potenza, e il fatto che non sia lunghissimo permette all’ascoltatore di concentrarsi per tutta la sua durata e di calarsi perfettamente al suo interno, in una parte scomoda, complicata, ma estremamente stimolante. “Dust” colpisce al petto: una introduzione lunga, bellissima, e un’improvvisa entrata vocale devastante, portano il pezzo su atmosfere Alice in Chains, un ambito attraverso il quale la malinconia perenne del gruppo esprime la sua monumentalità in modo originale e ambizioso. “From Day One” è un’altra scarica di energia pura, dove la chitarra e i suoi effetti creano un mondo distorto e inquietante. Qui le influenze dello stoner sono evidenti, e mescolate a un andamento nirvaniano creano atmosfere “stoned” – scusate il gioco di parole – dove la voce sembra in una sua dimensione e il resto del gruppo segue le sue variazioni mai uguali una all’altra. L’ottimo disco si conclude con un altro ottimo brano: “Masquerade” inizia in sordina, ma poi basso e batteria entrano, e si è catapultati in un tempo e luogo lontanissimi, tra principi aztechi pronti a parlare al popolo e rivoluzioni sfiorate, sognate, programmate, ma mai del tutto attuate; ed è forse questo il grande merito del disco: non arrendersi mai, creare nuove sonorità senza mai dimenticare la tradizione e le influenze; infondere speranza anche in questo clima di tristezza e disincanto. (Samuele Conficoni)