recensioni dischi
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ANI DIFRANCO  "Binary"
   (2017 )

Scrivere di Ani DiFranco limitandosi a “Binary”, ultimo di una ventina di album pubblicati dal 1990 ad oggi, sarebbe un po’ come raccontare di Gigi Buffon partendo da Cardiff. Iconica musa rovesciata, talentuosa, non appariscente, arrabbiata e polemica, schierata e ostile, politicamente scorretta e antagonista per natura, ciecamente femminista, bisessuale dichiarata con famiglia e prole a carico, pacifista, antimilitarista, paladina di ogni diritto umano, abortista, atea, ambientalista. Una vita all’opposizione, disco più disco meno. Si è costruita attorno la Righteous Babe Records, un’etichetta discografica di sua proprietà nella quale sguazzare libera da condizioni e condizionamenti, label per la quale ha pubblicato ogni lavoro senza eccezione, a testa alta e con quella sfrontatezza che la connota ab ovo. Oggi Ani appare forse addolcita (non diteglielo, per carità), mai addomesticata né pacificata. Fa la sua cosa, come sempre, magari meno acida e inviperita di un tempo, ma coerente e solida, da copione. Non rinuncia a quegli accenti jazzy che ama e infila ovunque come un ago sottopelle, dalla title-track in apertura alla sontuosa impennata nervosa di “Spider”, sventrata da un basso viscerale che risolve in maniera hard la strofa contorta; rifiuta come di consueto qualsiasi concessione alla fruibilità, all’immediatezza, alla boutade da classifica, robetta che con sdegno respinge al mittente, paccottiglia inessenziale per imporre il suo linguaggio asciutto e umorale. Ne butta lì un paio, di chorus fintamente ammiccanti, quello di “Play God”, innestato su una specie di reggae truffaldino, e l’ingorgo sfuggente di “Zizzing”, ospite il blasonato Justin Vernon. Ma sono trucchi da veterana. Predilige la pigra indolenza di “Pacifist’s Lament” o il rigurgito percussivo di una “Alrighty” impreziosita dai violini per contrappuntare il suo sermone del giorno. “Binary” è album che parte in sordina prima di sciorinare in una coda magistrale tutto il repertorio affinato in una vita spesa contro. L’aria sghemba e sbilenca, come da manuale, di “Even More”, il pianoforte inquieto di “Sasquatch”, le variazioni soffocanti di “Terrifying Sight”, fino all’epilogo di una mesta “Deferred Gratification”, litania raccolta e desolata per fiati ed archi, commiato con dedica a Mr. Obama, tanto per gradire. Sigla, sipario: non occorre altro, se non andarsi a ripescare album come “Not A Pretty Girl”, “Little Plastic Castle” o “Out Of Range” per meglio apprezzare un’artista cui ogni stringente definizione calza male o suona inadatta. Come il grande Dan Bern canta nell’iperbolica invettiva della geniale “President”, My cabinet includes John McEnroe/and Wavy Gravy and Michael Franti/And Ani DiFranco. E per me Dan Bern ha sempre ragione. (Manuel Maverna)