recensioni dischi
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MONOLOGUE  "Belle epoque"
   (2017 )

L'affollatissimo panorama indie italico sforna un altro bel progetto: un duo grossetano, i Monologue, che debutta con l'album "Belle epoque". Accompagnati da batteria elettronica, Lorenzo Cantini a voce e chitarra e Gabriele Bernabò alle tastiere propongono un suono pop che fa incontrare una chitarra acustica e il tamburello tipico del beat, con l'elettronica dei sintetizzatori di quel gusto retrò diffusissimo ai nostri giorni. Le musiche sono pressoché tutte leggere ed allegre, sempre in tonalità maggiore, e le tastiere di Bernabò tessono melodie orecchiabili che ricordano un po' il gusto di Elio Biffi dei Pinguini Tattici Nucleari. Ciò che spicca nei Monologue però sono i testi, che si interrogano sul futuro prossimo della nostra generazione. Intelligente il paragone del nostro tempo con la belle epoque di fine Ottocento e primo Novecento, una sensazione condivisa che i nostri hanno trasferito in parola. La title track si interroga: "La digitalizzazione a cosa porterà? Da qualche anno siamo tutti in America". Il mondo di oggi è "cieco e pieno di colori, e saturo di espressione che quasi non la vediamo". "Torre Eiffel", con un riferimento esplicito ai migranti e all'odio programmatico che certa parte politica promuove, analizza i timori che conosciamo: "Dici che ci invaderanno, bruceranno la nostra casa (...) se cadrà la Torre Eiffel chi farà crollare il mondo? (...) chi lancerà per primo le bombe?". Domanda retorica, visto che le bombe non tutti i Paesi possono averle. E su questa ipotesi tra il profetico e l'apocalittico, arriva in risposta la reazione: "Chiudete allora le frontiere, ma della vostra mente". L'indie pop diventa un po' più rock in "Tempi migliori", dove appunto questi tempi migliori li aspettiamo e li speriamo, anche se non dovremmo vivere nell'attesa e nella speranza, che effettivamente può durare parecchio, dato che stiamo ancora aspettando che torni l'era del cinghiale bianco, ovvero della conoscenza assoluta (in senso spirituale). Invece sembra convinzione comune che il domani sia sempre peggiore dell'oggi, al contrario dell'epoca del progresso e delle grandi invenzioni, quando si pensava che i figli avrebbero sempre vissuto meglio dei genitori. Lasciamo così alle future generazioni "Ferro e fiamme" anziché terra e fango, così si canta nel pezzo di chiusura dell'Lp, per il quale è stato girato un videoclip con tante persone in maschera, immobili e indifferenti a un uomo che, sempre indossando la maschera, cerca di stimolare e risvegliare gli altri. Quello della maschera è un leit motiv che ritorna in più canzoni, presentandosi prima di tutto in "Dici": "C'è una fabbrica di maschere dietro casa mia". Trasformismo pirandelliano che prosegue nel pezzo, dove Lorenzo canta: "Ieri ho mangiato un camaleonte". E così si indossano maschere o si cambia colore, ma si ha paura di guardarsi dentro. Ecco perché la domanda: "Vi siete mai tuffati dentro un lago per scoprire cosa nascondesse il fondo?", e perché non si trovano risposte. "Sarà forse perché se guardi il mare vedi solo onde, quando fa notte tu pensi alla morte". La superficialità però è figlia dei nostri tempi fatti di tante immagini e pochi contenuti, e in "Torniamo indietro", c'è una spinta quasi nostalgica a quando, si dice, in altri tempi c'era "una certa profondità". Invece, come per il camaleonte, anche noi viviamo in "un grande museo pieno di opere e di colori"; e nello stesso brano si ricorda l'errore che facciamo di considerare la Storia come un racconto monumentale ed impolverato, dal quale noi saremmo fuori, e così non è. "Primavera" è l'unico brano che lascia un po' di speranza nel futuro, nell'attesa che ritorni una stagione più florida; ma è il pezzo meno riuscito dell'album, con un testo non all'altezza degli altri, forse proprio perché poco convincente in mezzo ai cupi oracoli. Un debutto interessante e con degli argomenti poco sfruttati dagli indie, solitamente presi dalle proprie microcosmiche visioni studentesche. Uno sguardo più "macro" quindi, inserito in un contesto sonoro però essenziale e riconoscibile. (Gilberto Ongaro)