recensioni dischi
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NEIL YOUNG  "After the gold rush"
   (1970 )

Sogni di scenari apocalittici dove Madre Natura, rapinata e violentata, fugge verso altri mondi ("After The Gold Rush"), anatemi carichi di indignazione contro l'ottusità bigotta, razzista e assassina dei "nuovi sudisti" ("Southern Man"), desolate scene di povertà crescente in mezzo al finto luccichio delle città ("Don't Let It Bring You Down"), menti sconvolte e turbate che trovano l'unica salvezza nell'amore ("Only Love Can Break Your Heart"), anche puramente sensuale ("When You Dance You Can Really Love"), ma al tempo stesso soffrono per l'incomunicabilità che ostacola ogni rapporto ("I Believe In You")... insomma, pare di essere in pieno 2023, e invece tutto questo sta in un disco del 1970.

Profetico? Mica tanto: per Neil Young la corsa all'oro è finita o sta per finire, come suggerisce il titolo. E' prossima la svolta verso un nuovo mondo, verso un rapporto più armonico e umano con la natura; la grande illusione delle comuni hippy è un mito ancora intatto.

Quasi cinquantacinque anni dopo, con il senno di poi, possiamo dire che all'epoca la grande corsa alla devastazione e al saccheggio era solo all'inizio, e Neil Young sarebbe stato più lungimirante se avesse intitolato il disco "BEFORE The Gold Rush". Ma pretendere proiezoni lucide sull'evoluzione storica del mondo da un artista, sia pure ipersensibile come Neil Young, sarebbe eccessivo, dato che il più delle volte non ci azzeccano nemmeno gli storici di professione.

Meglio prendere "After The Gold Rush" per quello che vale dal punto di vista musicale e poetico: un'opera pienamente riuscita, ma figlia del suo tempo, carico di illusioni destinate fatalmente a svanire. Il grande cantautore canadese, ormai adottato dalle grandi distese della West Coast USA, era reduce da uno dei suoi dischi rock più ispirati, "Everybody Knows This Is Nowhere", il primo capolavoro di una lunga serie, ma invece di appiattirsi su questo modello sterzò decisamente verso la ballata folk, pur conservando l'appoggio della sua fedele band, i Crazy Horse.

Ciò che venne fuori fu un nuovo capolavoro, che però sarebbe stato oscurato dal successo planetario del successivo "Harvest", al quale (per me) non ha niente da invidiare, anzi si fa leggermente preferire per l'assenza dei due brani "sinfonici" che appesantiscono "Harvest" come un'appendice estranea. Ma questi sono giudizi personali; meglio passare alla sostanza, che è fatta di poco rock e molto folk, quest'ultimo assai vario.

Residui delle furiose e ossessive schitarrate del disco precedente si trovano in "Southern Man", quasi a sottolineare il torvo anatema lanciato contro chi nasconde le sue tendenze razziste e criminali dietro una finta rispettabilità bigotta, e anche in "When You Dance You Can Really Love", che si avvale di un fantasioso e graffiante assolo di chitarra. La voce di Neil Young è quanto mai variabile, spesso doppiata dal controcanto della sua band nei brani più solari, come le tipiche ballate country "Tell Me Why" e "Till The Morning Comes". Diventa un acido grido di rabbia in "Southern Man", mentre nella bellissima "After The Gold Rush" assume un tono struggente di falsetto tremulo, accompagnato mirabilmente dalle semplici e intense note di un pianoforte.

Anche "Birds" è un ispiratissimo e delicato dialogo tra pianoforte e voce, ma impostato su un tema più arioso e sereno, abbastanza lontano dal clima da tranquillo incubo della title-track. "Don't Let It Bring You Down", "Only Love Can Break Your Heart" e “I Believe In You”, pur con notevoli diversità, mantengono la struttura della ballata country-folk, potenziata da un suono più ricco e corposo, in cui si sente l'impronta di tutta la band. C'è spazio anche per una cover di un classico del repertorio country, "Oh, Lonesome Me" di Don Gibson, da cui Neil Young riesce a trarre sonorità insospettabilmente ricche e melodiche, che sembrano smentire il cliché di una musica country piuttosto grigia e piatta.

Uno splendido disco da riscoprire, questo, magari proprio da parte di chi di Neil Young conosce solo "Harvest" e il suo magico "spirito della terra", che troverà anche qui, ancora più intatto. (Luca "Grasshopper" Lapini)