recensioni dischi
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LEFTER  "Lefter"
   (2017 )

I Lefter sono un duo di Udine che mescola sapientemente l’alternative rock statunitense e inglese contaminandolo con il synth-pop di lingua anglosassone e le derive più garage rappresentate da alcune band contemporanee o del recente passato. Tra le tante influenze, si possono sentire in particolare quelle di Japandroids, Sonic Youth e Slowdive.

Le chitarre in primo piano, distorte e molto curate, che creano un tappeto sonoro fluido e divertente, pieno di spunti e su cui è bello sognare, fanno da pilastro a questo breve ma intenso EP dei Lefter, e sono fiancheggiate da un utilizzo mai banale di batteria e/o drum machine appositamente costruite da Red sulle fiammate chitarristiche di Marco. Se questa descrizione del disco appare fin troppo astratta, allora occorre ascoltare l’esplosiva “Dalawang”, il brano d’apertura, che condisce il tutto con un beat energico e una strizzata d’occhio quasi alla disco music. Il mix di conoscenze pregresse del duo – esperienze con altre band di entrambi e attività concertistica dei Lefter, tra cui svariate esibizioni a Londra – porta un carico di responsabilità non indifferente, ma è ben gestita da Marco e Red, che inseriscono in questo disco tutta la loro sincerità e creatività senza paura di toppare. E infatti non toppano. Le canzoni sono belle, si muovono sinuosamente in un confine incerto tra rock e pop, aggressività e tenerezza, energia e riposo. A prevalere, senza dubbio, è il lato aggressivo ed energico, ma al suo interno, come nella quasi shoegaze “Pimlico”, cresce anche la dimensione meditativa, in un mondo dove lo strumentale è quasi tutto e la forza della band sta proprio nella schiettezza performativa, in presa diretta.

Questo andamento ipnotico – vedasi “NOPRISONERS”, esperimento a mezza via tra un leggiadro math rock à la Don Caballero e una psichedelica effusione in stile nordico, e qui leggasi Radio Dept – a volte si spezza e si infrange contro muri del suono che crescono pian piano, come circa a metà della canzone sopra citata, in cui è introdotta una voce filtrata da un megafono, sbattuta e tagliuzzata dal duo e rispedita contro l’ascoltatore in una veste quasi incomprensibile. A ridare fiato al “sentore ‘90s” del gruppo è “FA#”, pezzo che cerca di seguire in qualche modo la gigantesca “Cross the Breeze” dei Sonic Youth sia nel giro di basso, sia nelle interruzioni delle chitarre, sia nel cantato sommesso e sognante. Il rimando – il tentativo di tributo o citazione, se non quasi di “cover” – a “Cross the Breeze” è così evidente da far pensare che questo duo debba ai Sonic Youth molto più di quanto si possa credere. Ma in questo magma incandescente percepiamo anche la presenza dei My Bloody Valentine, in qualche modo utilizzati anche loro in “FA#” – forse il pezzo prende qua e là da qualche canzone di “Isn’t Anything”? – e punto cardine per qualunque musicista cerchi di dar voce a questo genere. Considerando che questi esperimenti non sempre riescono, è giusto fare i complimenti ai Lefter, che sperimentano e citano senza mai cadere nel prevedibile e mantenendo altissima la qualità compositiva ed esecutiva.

Il finale del disco conferma la bravura del gruppo e la solidità delle loro idee. “Sucker” non si allontana da quella linea alternative e shoegaze prima descritta, rimanendo in qualche modo in un territorio di confine tra i Sonic e gli MBV, aggiungendo però dissonanze temporanee degne delle garage band più spietate dei ‘90s come i Guided by Voices. “Torchman” ritorna più sulle sonorità synth dei primi due pezzi, fondendo a questa un arrangiamento dream pop che i Cocteau Twins apprezzerebbero. Un EP pieno di sorprese positive come questo non lascia che sensazioni estremamente buone per il futuro del gruppo. (Samuele Conficoni)