recensioni dischi
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WYATT E.  "Exile to beyn neharot"
   (2017 )

Un esilio in un deserto torrido potrebbe essere lo scenario ideale per ascoltare "Exile to Beyn Neharot", album di Wyatt E., uscito il 4 settembre 2017 che presenta solo due brani. Da 19 minuti ciascuno. Navighiamo nel post-doom e nella drone music, anche se non ci sono soluzioni così estreme come quelle dei Sunn O))). E i titoli dei due pezzi danno un'indicazione geografica precisa dove collocare questo viaggio sonoro e mentale. Il primo, "Nebuchadnezzar II", come si può intuire si traduce in italiano con Nabucodonosor II, nome del celebre sovrano di Babilonia, fautore della sua ristrutturazione ma anche della distruzione del Tempio di Salomone, che portò al primo esilio ebraico. Tornando a Babilonia, nella città era presente la Porta di Ishtar, nome di un'antica dea dell'amore e dell'erotismo. Il secondo pezzo infatti si chiama "Ode to Ishtar", è evidente quindi la ricerca di una coerenza narrativa in questi affreschi strumentali. Nonostante le variazioni minimali ai giri di accordi, elemento canonico del genere, dei cambiamenti anche importanti ci sono, ma te ne rendi conto solo skippando da un momento all'altro dei brani. Ascoltando invece interamente i pezzi, il trasporto emotivo vince sul senso critico e sulla fredda analisi. Ci sono parti in cui la batteria e le percussioni etniche sono dolci e le note estese fanno da padrone, ma in altre la batteria, anche se sempre su battiti downtempo, riesce a spiccare e a far percepire una sorta di groove, seppur dilatato. Nelle parti più tranquille del primo brano, gli arpeggi puliti di chitarra fanno uso di stilemi forse prevedibili: si utilizza la scala araba (ad esempio: do do# mi fa sol sol# si do), però il suo effetto "orientale" ed evocativo lo ottiene, come sempre. La suggestione è comunque rinforzata dal crescere graduale della distorsione metal, e dal tuonare inesorabile di basso e batteria, e questo supera lo scimmiottamento della musica etnica, trascendendo la tradizione che si fa monito apocalittico. Nel secondo capitolo il minimalismo armonico è ancora più serrato: per quasi nove minuti c'è un pedale su un unico accordo, dove l'unica nota diversa è il semitono ascendente. La batteria è più agitata, gioca molto su tom e timpano. Ci sono anche fasi più tipicamente ambient, con accordi prolungati di tastiera (o di chitarra che utilizza suoni synth). In conclusione siamo di fronte ad una musica basata sulla tensione crescente e decrescente, costruita su una staticità monumentale, dove gli amanti del genere potranno volare a bassa quota, fra antiche rovine di ziqqurat e sconfinate distese di sabbia rovente. (Gilberto Ongaro)