recensioni dischi
   torna all'elenco


LATENTE  "Monte Meru"
   (2017 )

La buona sorte che ti regala in dote oltre a Thom Yorke anche le voci del sottobosco, sa talvolta donare inattese delizie, tanto ben celate da rimanere minuscoli tesori per privilegiati adepti. A tal proposito: caso strano – o forse semplicissimo – lo splendido disco dei Latente, quartetto di Milano & dintorni in pista dal 2010 ed oggi al secondo album lungo, questo “Monte Meru” realizzato con la collaborazione di Francesco “Frank” Altare a tre anni dall’esordio di “Basta Che Restiamo Vivi Noi”. Inutile tentare di definirlo in svariate fogge differenti, o sottostare alla giocosa tirannia delle citazioni, dei rimandi, delle ascendenze: qui ci sono dieci canzoni dritte come aghi ed una quarantina di minuti di pura beatitudine. Vano pure rifugiarsi dietro paraventi o maschere di comodo: la musica soffocante dei Latente è emo-core, con molte propaggini ad affacciarsi sul resto della notte, ma sempre emo-core. Prove indiziarie: accordature aperte (se sbaglio mi corrigerete), melodie straziate, un’elettricità pregna di sovrana afflizione, ritornelli immancabilmente gridati, parole dolenti. Ad aleggiare cocciuto su un ribollente mare impetuoso al tramonto, il vero tratto distintivo della band: una tristezza testuale che raggiunge inusitate altezze di sincera epicità, sistematicamente ingoiata da ritmi frenetici e chitarre laceranti in un diluvio di tonalità minori che tutto sommergono, tranne la disarmata voce singhiozzante di Francesco Panetta. A parte il mirabile intreccio di “Fumare”, primo singolo con video annesso ed una costruzione che – poche storie - rasenta la perfezione, gli altri nove episodi che rendono “Monte Meru” un timido capolavoro di costipata introversione sono altrettante facce della stessa agitata mestizia, schegge intrise di ricordi dolenti, rimorsi, sconfitte, sogni infranti, errori, rimpianti, perdite assortite. In “Lucido” cantano versi come "E’ meglio ignorarsi che ferirsi" su un’aria da Marlene Kuntz in versione languida scossa da un finale incalzante; in “Brace” - cadenza à la Verdena - esordiscono con "A cosa serve cadere/a cosa serve rialzarsi/se tanto poi ricadi"; "Quello che ho perso/ mi ha portato a ciò che ho/ che domani perderò" è invece l’incipit di “Ti Vengo A Trovare”, straziante dichiarazione d’amore filiale per un padre che non c’è più; altrove (“Nervi”) affiorano accenti post che sempre si riservano spazio per veementi digressioni armoniche sature all'inverosimile, gonfie come fiumi in piena, mai inclini alla violenza. Album che non concede oasi di requie – emozionale, uditiva, fate voi –, “Monte Meru” è un accumulo di tensione che si autoalimenta e deflagra di continuo, come un treno allo sbando diretto contro un muro, quello prefigurato dall’urlo parossistico che chiude “Everest”, quello che si prende tutta la scena nell’apertura de “La mia stanza buia”, dichiarazione d’intenti fin dal titolo e manifesto programmatico dell’intero lavoro. Disco a suo modo clamoroso, traboccante di stravolta intensità e di un depresso romanticismo sui generis, ammantato di un’aura quasi eroica, statuario nella nuda bellezza urlata che ne incornicia le trame, desolato ma fiero, elegante, compatto, granitico, ruvido e spinoso, soprattutto veloce e fragoroso fino al limite estremo. Merita tutta l'attenzione che la sua defilata umiltà non gli deve precludere. (Manuel Maverna)