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YATO  "Post shock"
   (2017 )

Yato si definisce cantautore electro vocal, e il suo percorso musicale si può affiancare a quello electro pop che sta percorrendo Samuel dei Subsonica, ma con suoni meno appiattiti, con maggior ricerca tra elettrico ed elettronico. Un rock dance nordeuropeo con parole introspettive e a tratti oniriche, in questo "Post Shock", secondo album che arriva dopo il primo "Fuck Simile" del 2016, dove già si poteva sentire la scelta di concentrare l'attenzione sulla propria vocalità e sugli esperimenti con la voce naturale e le possibilità dell'elettronica dal vivo e delle loopstation. Ora si aggiunge anche più spazio alla sperimentazione sonora, inserendo due brani strumentali, "Dub-bi" e "Intro me", il primo più techno dub ed aggressivo, il secondo più pop etereo. "Sì, vorrei sempre parlare un po' più a fondo dei sogni miei", canta Yato in "Le teorie possibili", canzone con la maggiore affinità con la band torinese di Fred Boosta. Per il resto c'è uno stile più personalizzato. Il pezzo "Consciock" convoglia i suoi elementi caratterizzanti, una corsa sintetica affiancata da chitarre distorte, con un testo sfuggente e visionario: "Alla lucidità del cuore non si comanda (...) nel consciock non c'è spazio al dissenso ma cambio virale di questo desertico velluto spaziale". Se la realtà virtuale inizia a coincidere con la psiche interiore, siamo di fronte ad un nuovo tipo di dipendenza; e in "Post" si affronta questa esposizione pubblica dei pensieri personali. Scrivere sui social è un po' confessarsi, si dice. E allora: "Le verità che cerchi sono solo opinioni, proiezioni virtuali dei tuoi dei digitali". E la conseguenza è che ci si incastra nella propria bolla di filtraggio: "E non esco dal mio post, tengo duro il mio tabù". "Electro hardore" (e non hardcore) è un synth pop orecchiabile dove l'erotismo si mescola ai sogni: "Busso alle porte del piacere con in bocca una rosa blu, mi apri il volo in Messico". Il videoclip calza bene l'idea che tutto questo sia un mondo interiore: dentro i confini del corpo di Yato (e della band), scorrono sovrapposte scene dionisiache di un road movie à la David Lynch, di due donne amanti che compiono una rapina per fuggire in Messico. "Idolatrina", dai bpm più rallentati, allinea un arpeggiatore synth a un palm muting di chitarra pulita. Il titolo fa riferimento a un'immaginaria sostanza dopante, è "la solita libidine che sai, l'innesto di un eccesso d'affetto per dimenticare fin dove ti porta l'inconsapevolezza, fingere di restare senza parole da dire". Leggendolo così senza musica, sembra un concetto contorto e difficile da ascoltare, invece l'andamento della canzone lo rende scorrevole e più afferrabile. Chiude l'album un remix di "Ormonauti", canzone presente nel lavoro precedente, qui resa strumentale e house. Quello di Yato è un progetto che cerca di coniugare sonorità che allettino il corpo nella danza, con testi cerebrali che facciano pensare. Ad ogni ascolto e riascolto però, in tale commistione prevale solo uno dei due aspetti alla volta: o ci si lascia prendere dal ritmo accattivante, o si presta attenzione alle riflessioni. C'è ancora bisogno di esplorare ulteriormente le possibilità musicali e verbali, per raggiungere una terza via che riesca a far coesistere i due elementi in maniera univoca, e "Idolatrina" è probabilmente ciò che più si avvicina a questo scopo. (Gilberto Ongaro)