recensioni dischi
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BLACK TAIL  "One day we drove out of town"
   (2017 )

Unendo il rock degli Wilco alla sensibilità cupa e dolce di Elliott Smith, i Black Tail – Cristiano Pizzuti e Roberto Bonfanti – danno alle stampe un secondo album pieno di sorprese e di brani energici, ma dentro al loro disco ci sono un’infinità di citazioni e influenze, mai scontate e ben amalgamate tra loro.

Nati nel 2012, i Black Tail sono figli di un alternative rock anni novanta che non è mai morto e che continua a emozionare ed esaltare ragazzi e adulti da ogni parte del mondo. Se i Nirvana sono forse la band più famosa del decennio, Kurt Cobain e soci non sono stati i soli a essere influenti e decisivi nella formazione delle band a loro succedute. È a Boston, dove Pizzuti si trova temporaneamente nel 2012, che il progetto ha inizio, e l’attitudine statunitense sulla musica dei Black Tail è decisiva ed enorme. I già citati Wilco, specialmente quelli della fase iniziale, che da “AM” giunge all’acclamato “Foxtrot” del 2002, si sommano ai Silver Jews, alle distorsioni pop di Malkmus e dei suoi Pavement e anche alle dolci riflessioni di Smashing Pumpkins e Stone Temple Pilots. La voce leggera rimanda a Elliott Smith, come anche il trattamento delle chitarre, e in particolare allo Smith a cavallo tra ‘90s e ‘00s, di “XO” e “Figure 8”.

Il disco si apre con “Sleepy Volcano”, che potrebbe uscire proprio da un “Figure 8” mescolato a uno “Wowee Zowee” dei Pavement, mentre la successiva “Spider / Galaxy” richiama addirittura gli Strokes e “Text Walking Lane” è soffusa e sognante come una canzone di Songs: Ohia, il cui alternative folk si percepisce nelle pieghe melodiche del pezzo. “Campfire” ha persino sfumature psichedeliche, e “Downtown” strizza l’occhio ai Jesus and Mary Chain.

Più intima e ricamata è “A Fox”, che tra le magiche pizzicate di chitarra e gli arpeggi brillanti inserisce una voce straniante, che culla l’ascoltatore dall’inizio alla fine: l’alt folk è anche qui il genere di riferimento, e i Black Tail sembrano esserne degli interpreti assolutamente adeguati. “Slippery Slope” tocca un registro decisamente più rock, con voci sdoppiate e diverse chitarre una sopra l’altra, così come “Wild Creatures”, il penultimo pezzo del disco, che è ancora più aggressivo e alterna un sound garage a momenti totalmente distorti e caratterizzati da una scarica strumentale devastante.

Il disco si chiude con “Sycamore”, un dolcissimo brano un po’ folk – nell’arrangiamento e nell’andamento e nella voce – e un po’ pop – specialmente nella melodia e nel trattamento degli strumenti – che colpisce nel profondo. Il sipario cala e la soddisfazione è tanta: i Black Tail, infatti, dimostrano di essere maturi, pieni di idee e raffinati, e sono in grado di ingaggiare un consapevole e profondo dialogo con il passato, che diventa talvolta un modo per sperimentare forme nuove e fondere insieme generi differenti. (Samuele Conficoni)