recensioni dischi
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DEFOLK  "Bisolare"
   (2017 )

A voler ben guardare, ogni situazione è come una replica di Rashomon: questione di punti di vista, di stati d’animo, di momenti, istinti, sensazioni. Il paragone regge quasi sempre anche per i dischi, che ti colpiscono oggi di più e domani di meno a seconda di che ore sono o di quanto sei triste, ben disposto o incupito dal tempo che fa. “Bisolare”, nuovo album su etichetta Maiohm Recordas del quarantenne Vincent Migliorisi aka Defolk, artista siciliano dalle mille sfaccettature e dai trascorsi variegati come i suoi percorsi musicali, non fa eccezione ed offre ottimi motivi per lasciarsi leggere da molte prospettive, elevandosi dal rango apparente di cantautorato addomesticato – così italico, così lineare – a quello di promessa degna del senno di poi. Ha parole pesanti – quando vuole – cantate col piglio pacato del crooner serafico capace di screziare le sue talvolta esili trame con un sottile e dimesso disincanto; ha intuizioni armoniche pregevoli che sanno scavare nelle piccole miserie umane non solo accoccolandosi in bozzetti intimistici (“Le Cose Cambieranno”, con Alì), ma anche impennandosi a passo spedito, come nell’irresistibile groove à la Arcade Fire (sic!) di “Si Dimentica”, con la preziosa partecipazione di Luca Madonia. Guarda il mondo con occhio attento che intercetta malessere e vite ai margini, come nella vibrante meraviglia – archi, fiati ed un palpitante testo di tangibile amarezza – di “Spoiler”, o nella love-story buttata via della desolata “Amore al 50%”, o ancora nel fatalismo della conclusiva “Viraggio” che caracolla à la De Andrè verso il falso ottimismo di un epilogo in crescendo. Sa scherzare, ma mai del tutto; ogni sorriso è a mezza bocca (“La Lumaca”, sorniona e diretta à la Leonardo Veronesi, con prezioso inciso di tromba; “Un po’ Condriaco”, lieve quanto basta), ogni accenno di ironia muore soffocato dal prossimo intoppo che sbarra la strada, anche se un refolo di speranzosa redenzione rimane ad alitare sull’infinita vanità del tutto: è il caso del folk paesano dell’opener “Viola”, arrangiamento accattivante su una bella aria in minore, o del country leggero di “Alzati”, entrambi episodi emblematici di un innato equilibrio tra chorus furbetti e ferite inferte in punta di fioretto. Tutti espedienti funzionali a nobilitare la portata ed accrescere l’allure di un album che vive sulla naturale alternanza di melodiosa semplicità e graffi indocili. Il tutto porto con la pacata dimestichezza di un animo che resta fondamentalmente puro e refrattario a concessioni plateali, quello di un cantastorie gentile che riserva ad ogni ascolto differenti punti di osservazione sulla sola possibile via d’uscita: lo spoiler della vita è/che alla fine tutti moriamo. Chissà, forse è questione di punti di vista. (Manuel Maverna)