recensioni dischi
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LEBOWSKI  "Cura violenta"
   (2017 )

Beandosi fiero della propria irriverenza e refrattarietà agli angusti confini di generi o alle inconsistenti tendenze di ventura, il collaudato quintetto marchigiano Lebowski dispensa in “Cura Violenta” - quarto album in poco meno di un decennio – dieci schegge di disallineata genialità sul lato oscuro dell’indie nostrano. Pubblicato per Area51 Records, con registrazione, missaggio e mastering a cura di Gianluca Lo Presti (Nevica Su Quattropuntozero, Nevica Noise) e la partecipazione accorata di Bruno Dorella, Matteo Scaioli, Sasà Vaccaro e Perrine Feriol a conferire all’insieme tonalità ben più spettrali ed allucinate rispetto ai pur sbilenchi trascorsi, “Cura Violenta” è un excursus stravolto, contorto e soffocante fra le maglie di una creatività perversa mai lineare né prevedibile. Impossibile stabilire a priori qualche svolta prenderà il prossimo brano, altrettanto improponibile concedersi requie stritolati fra le spire di un lavoro in costante oscillazione fra ascendenze colte e velati rigurgiti di un pop sfigurato (“Little B”, con uno sviluppo che rimanda quasi ai Cure), quarantadue minuti di cervellotica urgenza che sanno sorprendentemente mediare fra mondi lontanissimi mai cedendo all’effimero richiamo di un vuoto elitarismo. La somma delle parti disegna percorsi di musica sghemba per le masse fondati su un’espressività oscura, densa come pece e sovraccarica di torva scaltrezza. Ammirevolmente sfrontato, l’album si apre sui sette minuti e mezzo strumentali – in criptico crescendo - della labirintica title-track, prima di trovare sfogo nei sei minuti di “Animali Nella Notte” con Dorella alle percussioni, un rebus spaccaossa che inizia come un pezzo del Battisti meno addomesticato e si infila in un cunicolo di distorsioni, tribalismi e sax da no-wave, tremenda sequenza di spasmi epilettici e montante tensione. La successiva “L’antagonista” deflagra in un chorus ingorgato e chiassoso con figure di sax che ricordano Shabaka Hutchings; “Mi Sento Uh!” caracolla sguaiata sul registro del migliore Management Del Dolore Post-Operatorio, quello più abrasivo ed indelicato; “Paolo Ruba Cuori” narra con disilluso sarcasmo una storiaccia sorretta da un basso à la Jean-Jacques Burnel; “Giorno Zero” è violenza sibillina da Capovilla & Friends. In un clima perdurante di psicotico assedio in giacca-e-cravatta, si va delineando un effetto complessivo stordente e straniante, un meditato post-qualcosa in cui determinante è il ruolo del sax di Nicola Amici, contrappunto ineludibile capace di sfregiare o sostenere, straziare o puntellare, sfocando e confondendo mentre leva appigli e cancella riferimenti. Nerbate di percussività martellante, che sfibrano ma irretiscono, frustano le increspature assassine di “Appeso” e l’andazzo generale à la CCCP di “Universi Paralleli”, prima che la voce di Perrine Feriol – raggelante e cronistica, nell’intento ricorda vagamente Brigitte Fontaine ne “L’Europe” dei Noir Desir - cali il sipario su una “Journal Noir” che è soltanto l’ultimo trompe-l-oeil di un disco asfissiante, buio, aggressivo. Coraggioso, anche; a tratti opprimente, certo impegnativo. Saturo, vario, spiazzante, frenetico, ipnotico pure. Affascinante e letale come un cobra. (Manuel Maverna)