recensioni dischi
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UFOMAMMUT  "8"
   (2018 )

Addentrarsi nella storia – nascita, evoluzione, grandeur – degli Ufomammut significa infilarsi nel fitto di un bosco, di notte, da soli. Depositario di una delle più compiute e meglio rifinite formule di metal (solo metal?) mai viste in Italia, il trio originario di Tortona pubblica per la label indipendente Neurot Recordings “8”, nuovo sinistro capitolo a due anni da “Ecate”, tetro compendio che declina in forme elaborate quel suono divenuto, in poco meno di un ventennio di attività, tratto distintivo e crisma di unicità. Concepito come una sola traccia suonata in presa diretta e suddivisa in otto bui anfratti, “8” è un monolite incombente, oscuro e spettrale rebus che reitera in fogge mutate il primigenio doom del periodo “Snailking”. Rigurgiti psych scuotono gli otto claustrofobici minuti dell’opener “Babel”, ingabbiata in echi stoner circolari che ricordano addirittura i Loop, ossessione scossa dalla rivolta sotterranea della voce irosa e distante di Urlo, strumento aggiunto a mugugnare borborigmi inintelligibili su basse frequenze. In un clima ottundente che mai solleva il velo nero steso a drappeggiare queste trame pesanti e infide - a lungo andare snervanti, sempre e comunque asfittiche - si snodano 48 minuti di elettricità sì dirompente, ma fondamentalmente implosiva. Mai lasciati liberi di deflagrare, i movimenti sono costruiti sull’effetto stordente e mesmerizzante della psichedelia piuttosto che sulla ruvidità emozionale del metal. In questo senso, i brani rinunciano a trovare uno sviluppo, prediligendo strutture ripetitive (seppure meno che in passato) simili a cattedrali di suono granitico in continuo collasso su sé stesse, atmosfere caliginose ripetutamente squarciate da contrappunti nascosti alla vista: è una musica sporca, opprimente e singhiozzante, un salmodiare torbido che arranca su cadenze metronomiche, gorgo monocorde che tutto inghiotte nel suo ventre di balena. Di rado il copione varia, se non nel tempo sbilenco di “Fatum” o negli inattesi vocalizzi sul finale di “Warsheep”; o ancora nel breve intermezzo corale – quasi liturgico, sacrale – di “Prismaze”, digradante negli accenni post di una “Core” agitata in avvio da pulsioni liquide, poi trafitta da grida parossistiche. O infine nella chiusura marziale, titanica, wagneriana di “Psyrcle”, risolta in un accenno di prog denso come palta. Paradossalmente paragonabile ad una cantilena muta, “8” segna la conferma di un progetto votato alla più soffocante tetraggine nell’assoluto, incrollabile rispetto di una lucida coerenza stilistica, scelta di vita forse prima ancora che artistica. (Manuel Maverna)