recensioni dischi
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FEU ROBERTSON  "Tremblez tyrans"
   (2018 )

Non più tardi di un anno fa rimasi sinceramente colpito – stupito, direi – dallo strano album dei Feu Robertson, quartetto franco-inglese domiciliato a Reims. “Sticky Situations With Troubles” parlava non soltanto una lingua musicalmente avulsa da stilemi vari, ma sorprendeva per come declinava in forme inusuali ascendenze difficili da rintracciare, collocandosi spavaldo in una terra di nessuno. “Tremblez Tyrans”, otto nuove tracce e terzo album su label Partycul System, reca in dote la consueta musica traballante, melanconica, abrasiva, nelle loro stesse parole. Post-folk (?) bislacco quasi completamente svuotato della sua componente attrattiva, aggiungerei. Con ampia strumentazione impiegata in combinazioni insolite (la batteria è pressoché assente), al servizio di un bailamme cantilenante e psichedelico latu sensu. Biglietto da visita eloquente, i sei minuti e mezzo dell’opener “Texas Tarantula” rappresentano il singolare anti-canone che li caratterizza: a passo cadenzato, un graduale crescendo elettrico accompagna un ingorgo monocorde che si ingrossa come un fiume in piena fino all’epilogo claustrofobico, imperniato su una reiterazione armonica infinita. La successiva “Meteor Striking” impiega due minuti e mezzo per trasformare una intro attendista in una sghemba ballata lisergica che suonerebbe beatlesiana se non fosse per la tendenza (ancora) a non variare la melodia, nonostante un clarinetto infido e piccoli espedienti sparsi ad arte. I testi sono brevi, minimalisti, ermetici, costruiti attorno a poche parole, ripetute da Charlemagne Ganashine talora come in un mantra strafatto (“Burial And Burning”, mugugnata con voce filtrata su un’aria storta); o del tutto assenti, ad esempio nella strumentale “Flirt I (Thoughtful)”, avviluppata attorno ad un giro di steel guitar che fluttua circolare senza approdare a nulla, quasi una versione lo-fi-folk degli Slint. In nessun caso è mai chiaro né evidente in quale cunicolo si infilerà questa musica singhiozzante, slabbrata, aperta nel senso più ampio del termine, agonizzante e stordente: tra la macabra danza powwow di “The Day Of Glory”, che sfocia in una frenetica marcia innodica chiusa da un carillon sulle note della Marsigliese, le percussioni sorde e l’elettricità disturbata di “Blues For Miss Fitz” (con voce campionata sulla falsariga del “Dead Flag Blues” dei Godspeed You! Black Emperor), la visionaria e acida “Hot Turkey”, velvetianamente perversa, nessun brano ha uno sviluppo vero e proprio, ogni indizio è un nuovo rebus. E’ questo insistito, ricercato, fortemente voluto incidente a decretarne la peculiarità: la conclusiva, emblematica “Flirt II (Stargaze)” culmina così in oltre due minuti lasciati vagare alla deriva in quello che è a modo suo un crescendo, ma risolto ancora una volta nell’ennesima nebulosa. Ove tutto si polverizza, si dissolve, forse si disintegra, simile a come ha avuto inizio. Un enigma, tout court. (Manuel Maverna)