recensioni dischi
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MILLS  "Monochrome"
   (2018 )

Dall'Austria arrivano i Mills, duo che propone un sound squisitamente teutonico, che mescola elementi che sì, si rifanno agli anni '80 e '90, ma più che avere una caratterizzazione temporale, è la geografia che li rende tipici. Questo genere che chiamano post wave, si inserisce nel filone dei tedeschi electro wave 5timeszero e degli italiani darkwave The Frozen Autumn. C'è sempre un "wave" che li accompagna, in fondo, e degli archi di tastiera che richiamano i grandi spazi della zona mitteleuropea. Quest'ondata sintetica, nel caso dei Mills, fa incontrare la batteria elettronica con una chitarra elettrica con chorus. Questo connubio si trova spesso nei brani dell'album "Monochrome", fin dal primo evocativo pezzo "Train to Berlin". Città scelta non a caso, da sempre ghiotta di queste sonorità. La canzone invita a partire per un viaggio già fatto in precedenza, e i ricordi non promettono bene ("last time we were very sad"). I battiti sono a velocità sempre abbastanza regolari, tra i 130 e i 150 bpm, e con "A little more", così come con "Wish" e "Edge", ascoltiamo un tipico synth pop a cassa dritta, senza sorprese ma coi suoni che piacciono agli amanti del genere, sintetici a onda quadra, che si sovrappongono e si alternano. In "New World" però ad un certo punto la drum machine si interrompe, lasciando spazio a una batteria acustica reale e alla distorsione di chitarra, apportando brandelli di rock al progetto. "New world" ha anche il testo più curioso, tra lusso e finzione artificiosa: "I'm sitting in a limousine, no matter what I see (...) some love with the plastic guy". La voce virile e calda è sempre avvolgente. "Lost" è un brano dal carattere più enfatico degli altri, con un ritornello armonico che dà respiro glorioso ad un ritmo claustrofobico, per essere più veloci del tempo che passa: "We can swim against the time". Più divertita "Neon", con il basso che compie il classico salto d'ottave, ma rimanendo sempre nello spirito dark. I due brani in fondo all'album hanno due sinonimi come titoli: "Edge" e "Border", che entrambi si possono tradurre con "bordo", laddove uno è inteso come limite, anche morale, mentre l'altro è proprio un confine. "Edge" è una canzone di devozione: "You are my sunrise (...) you can see behind the mind". "Border" invece rallenta i battiti e dona una riflessione sulle cose non fatte e sul tempo spietato che continua a scorrere: "Time is tic tac tic tac (...) all beliefs are tricking, all the promises are breaking". Il protagonista canta all'interlocutore la sua inquietudine: "You're a black heart", e così si chiude quest'album denso di oscurità e di suoni sì provenienti da epoche passate, ma del tutto prive di quel sapore inutilmente nostalgico, e quindi nuovamente godibili. (Gilberto Ongaro)