recensioni dischi
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iBERLINO  "Hai mai mangiato un uomo?"
   (2018 )

Sottilmente minaccioso ed incombente, “Hai Mai Mangiato Un Uomo?” è un disco profondamente haunting, ammantato da un’aura subdolamente malevola. Postmoderno o forse demodè, che è come dire tutto e niente. Fieramente avant negli intenti, Mirko Difrancescantonio e Fabio Pulcini da Bologna – in arte iBerlino - pubblicano per La Bionda Records il loro terzo lavoro, nove tracce che caracollano sul filo esile di un’elettronica decadente appena screziata dalle chitarre ed attraversata da una voce tanto espressionista quanto infida nel suo salmodiare sibillino e visionario. L’effetto complessivo è stordente, ammaliante, foscamente spettrale. Il gioco funziona, largamente impostato com’è sulle dinamiche ed attorcigliato intorno agli innumerevoli arzigogoli armonici che questa musica altera e straniante impiega per irretire, confondere, rimescolare. Il risultato è un girovagare onirico che prescinde – almeno in parte – dal contenuto testuale, usando la parola come suono aggiunto. “Senti Il Cielo Come Me” è un mantra psych che risuona tra dilatazioni space fluttuanti, secondo uno schema reiterato, quasi la sublimazione di uno stato di trance estatica; “La Partenza” uggiola sorniona nel suo melodrammatico porgersi in continua esitazione, oscura e limacciosa, un po’ la tenebra dell’Angelo Sicurella di “Orfani Per Desiderio”, un po’ il lirismo sovresposto dei Piccoli Animali Senza Espressione. Ogni episodio indica svariate vie di fuga. Pastiche di elettronica incupita, “Neve” lievita su voci sussurrate, restando plumbea ed insinuante, qualcosa di simile alla nevrosi dei Bachi Da Pietra: ma è melodiosa, non scarna, grazie all’uso distillato della chitarra ed alla voce celestiale di Susanna Regazzi. In un diorama di piccoli eccessi controllati il duo inscena un feuilleton ambiguo e variegato: “Fotografia” – tra La Crus e Benvegnù - è rarefatta e allineata, intensa e avvolgente; “L’età dell’innocenza” è groove sbilenco, pulsazione, sussurro maniacale attorno a poche frasi ripetute; “Un seme” - per solo pianoforte – è struccata, nuda ed essenziale, un Cesare Cremonini in acido. E’ anche l’ultimo avamposto prima dell’ubriacante turbinio che sparge veleno in coda. “Come Andar Di Notte” arranca così per sette minuti catacombali tra Suicide e Dan Sartain su un tetro registro dark; “Non Si Può Vietare In Un Deserto” segue lo stesso copione, ma lo fa per oltre dodici minuti, quasi una interminabile jam sorretta ancora dai vocalizzi di Susanna, sospinta in un’atmosfera conturbante tra i Subsonica meno addomesticati ed i Soft Cell più torbidi e sperimentali. Sono venti minuti di snervante ossessività, mai rischiarati da spiraglio di luce alcuno. Commiato sinistro e sghembo, sospeso ed ermetico, forse la sola chiusa possibile di un lavoro attraente, fascinoso, vagamente perverso. (Manuel Maverna)