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THE STEP  "No war to win"
   (2018 )

Il passo, quell'ultimo scalino da fare per raggiungere quel piano più alto, che ti porta ad osservare le cose da un punto di vista diverso. Questa band si è scelta un nome breve e di facile pronuncia, ma dal significato importante: The Step. E l'album d'esordio, dal sound diretto e riconoscibile, ascrivibile all'indie rock inglese e americano dei nomi più blasonati, porta come titolo la conclusione delle tante riflessioni che le canzoni fanno scaturire: "No war to win". Non c'è nessuna guerra da vincere, come invece qualcuno ci vuole far credere. Le undici canzoni scorrono orecchiabili grazie a riff che prendono, e refrain da cantare tutti insieme ai concerti. L'album si apre con "Human machines", un pezzo dalla batteria disco e un inciso di chitarra in odore di Franz Ferdinand, e la voce subito ci lancia il primo monito: "Not everybody knows, in this golden age, we've got more than we deserve (...) nothing is free for real, someone else is paying somewhere else". Il nostro benessere occidentale si basa sullo sfruttamento del resto del mondo, ma da qui non ce ne accorgiamo in quanto siamo ingranaggi della stessa macchina. Lavoriamo (chi trova lavoro) per sopravvivere e concentriamo le nostre energie e l'attenzione su questo. E non ci rendiamo conto delle cicatrici che lasciamo, come alla Terra come ai rapporti umani, sui quali si focalizza il secondo pezzo, "How the hell", che si chiede come le ragazze siano trattate dagli uomini e viceversa: "How the hell are we treating each other?". In "Blink of an eye", lo sguardo si posa sul circondario, il disagio verso la propria città e la violenza crescente nelle menti delle persone, ed è un invito a mollare le pistole. "Throw these guns behind (...) I hate my way back home at every corner, this lame city is not the same". Il brano ha un arpeggio maggiore che disegna un'atmosfera più sognante rispetto alle precedenti, ma non perde energia nel suo shuffle. Arriva per un po' la chitarra acustica in "Out of control", che comunque dopo un incipit più soft si accende. Le parole si fanno più introspettive, riguardo una bugia detta a sé stessi: "I try to shape, to warp myself, forgetting to be me". La voce in questa canzone inizia a far sentire un po' di calore, ma il brano più forte di tutto l'Lp arriva adesso: "Two idiots". A sorpresa, il brano con più pathos non è sui mali del mondo, ma su una coppia che si analizza. Pianoforte e riff di chitarra elettrica si incontrano in tonalità minore, su una progressione armonica nel ritornello abbastanza intuitiva, ma che fa sempre il suo bell'effetto. E nel testo, sembra che la considerazione verso la coppia sia inizialmente piuttosto amara: "I've never known two idiots like me and you", ma poi il pensiero evolve, passando da "idiots" a "fools", fino a diventare "two lovers" e "two tigers" (che sono le protagoniste della copertina). Il crescendo lessicale viene suggellato da un bell'assolo di chitarra, non virtuosistico ma di sicuro impatto emotivo. Anche se non si può pensare troppo ai primi Muse, c'è però l'utilizzo ammiccante del wammy nella parte iniziale dell'assolo. Dopo la vetta raggiunta in "Two idiots", continuano ad esserci brani dalle vibrazioni positive come "Mess Painter", e il classico lento con cori "Make love". Si riaccendono gli overdrive nel 6/8 "Stay awake" e rimangono accesi per un bel po', nella dolceamara "Something more" che sembra scritta dagli Oasis, però dal più creativo Noel, mica da quell'antipatico noioso di Liam. Le riflessioni continuano in "Gravity", un brano dal tempo moderato dove è incisivo il reiterare della ritmica di basso. Per The Step le parole sono importanti, tant'è che l'ultima canzone è "Connection", titolo non casuale per questo pezzo finale: il testo è stato scritto assieme ai seguaci della band (i followers di Facebook), ed è un modo originale di coinvolgere il proprio pubblico. La musica di "Connection" torna più soft e coi battiti di mani si pone proprio come collegamento popular fra le riflessioni esistenziali e la leggerezza verso il pubblico, quindi fra il rock indipendente e quello dall'intento più riconciliante. "No war to win" è un album coerente e completo, amichevole e ben scritto, che coniuga una musica piacevole a un'intenzione seria nella scrittura dei testi. (Gilberto Ongaro)