recensioni dischi
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BANCO DEL MUTUO SOCCORSO  "Io sono nato libero"
   (1973 )

L’ambiguo termine “progressive” indica una ricchissima e probabilmente irripetibile fioritura di idee musicali, che trovò espressione in composizioni ambiziose ed elaborate, a volte vere e proprie “suites” di impostazione classica. A dire il vero anche lo schema della canzone da 3-4 minuti ha un’origine classica. C’è chi lo fa risalire ai Lieder, che in effetti non erano altro che canzoni per pianoforte e voce, più o meno della durata di una “canzonetta” attuale, ma dotate in alcuni casi (Schubert su tutti) di melodie così ispirate da poter attraversare tranquillamente i secoli. Sia come sia, più o meno alla fine degli anni ’60 molti musicisti cominciarono a trovare un po’ strette queste misure, e la conseguenza fu appunto la nascita del “progressive”. Anche in Italia? Per quanto qualcuno in TV tenti di rappresentarci in pieni anni ’70 ancora intenti a trastullarci con Cugini di Campagna, Alunni del Sole e affini, la realtà per fortuna è un po’ più variegata. Senza scomodare Area e Perigeo, rimasti fenomeni di nicchia, basta citare la Premiata Forneria Marconi, il Banco del Mutuo Soccorso e le Orme per poter affermare che, sia pure con qualche anno di ritardo, anche da noi qualcosa si mosse. La città di Marino (Roma) oltre ai deliziosi e abboccati vini bianchi, può vantare di aver dato i natali ai fratelli Vittorio e Gianni Nocenzi, rispettivamente tastierista (organo, sintetizzatore) e pianista, entrambi di fomazione classica. E’ il primo nucleo del Banco del Mutuo Soccorso, che nel 1971 assume la sua struttura (quasi) definitiva incorporando il chitarrista Marcello Todaro, il bassista Renato D’Angelo, il batterista Pier Luigi Calderoni e (dulcis in fundo) Francesco Di Giacomo, una specie di “usignolo” di un quintale e passa, dotato di un’inconfondibile voce metallica e penetrante, ideale per interpretare i testi da lui scritti, molto poetici, a volte fin troppo straripanti di enfasi e teatralità. “Io sono nato libero” (1973) è il loro terzo album e a mio giudizio il vertice insuperato di una lunghissima parabola. La formazione è quella di base, anche se il chitarrista Rodolfo Maltese, che compare come ospite, di fatto ha già sostituito Marcello Todaro. L’album si apre con una mastodontica suite di 15 minuti: “Canto nomade per un prigioniero politico”. Chi ha paura delle canzoni “impegnate” non si spaventi: la politica è solo nel titolo. In realtà si tratta di un intenso e commosso inno alla libertà, contrapposta alla prigionia del protagonista, e la musica è più che all’altezza. All’inizio ad accompagnare il canto sofferto di Francesco Di Giacomo sono solo malinconici trilli di pianoforte su un tappeto di sintetizzatore, ma ben presto l’intera band esce allo scoperto con una frenetica sparata in perfetto stile Emerson Lake & Palmer, e da qui in poi è un susseguirsi di quadri continuamente mutanti: duetto di voce e chitarra acustica, assolo di sintetizzatore con veloce base ritmica, chitarra flamenca accompagnata da percussioni tribali, placidi arpeggi di chitarra, ancora percussioni distorte con effetti rumoristici, nuova sparata con assoli di tastiere… fino alla brusca chiusura, che lascia spazio al brano più famoso: “Non mi rompete”. Altro titolo ingannevole: niente parolacce né invettive velenose, ma solo la sacrosanta rivendicazione del diritto a sognare (“Perché volete disturbarmi se io forse sto sognando un viaggio alato sopra un carro senza ruote trascinato dai cavalli del maestrale, nel maestrale... in volo”). Senza offesa per i puristi del “progressive” si può tranquillamente dire che questa, per la sua immediata orecchiabilità, è a tutti gli effetti una canzone, una splendida ballata acustica sostenuta da un’impeccabile chitarra, anche se sia a metà che alla fine appaiono vivaci variazioni sulla melodia iniziale. Tetri accordi di pianoforte e un ritmo irregolare e sinistro accompagnano “La città sottile”, infido incubo metropolitano, con il poderoso cantante che a tratti “recita” letteralmente i suoi versi su uno sfondo di tastiere da brivido. Brano teatrale e non facile, ma di grande suggestione. Vale anche per “Dopo… niente è più lo stesso”, ovvero il dramma di un soldato che ritorna dalla guerra “con la sua stanchezza infinita” e vede la sua terra ridotta ad un cumulo di rovine. I versi, profondamente antimilitaristi, sono da incorniciare. La musica li asseconda perfettamente con la sua spettrale disperazione, a cui danno un grande contributo le tastiere dei fratelli Nocenzi. “Traccia II” è un incalzante e trionfale motivo dal sapore un po’ barocco che nasce in sordina dal pianoforte, a cui si affiancano progressivamente gli altri strumenti, in un magistrale crescendo che si esaurisce dopo neanche tre minuti. La classica ciliegina su una torta già molto sostanziosa. (Luca "Grasshopper" Lapini)