recensioni dischi
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EXTRA LARGE UNIT  "More fun, please!"
   (2018 )

Ci risiamo. Paul Nillsen-Love, non contento dell'eccesso raggiunto dai Large Unit, con undici musicisti che lo hanno attorniato alla sua batteria per eseguire un folle free jazz il più rumoroso possibile, questa volta ha raggiunto la cifra di ventisette suonatori. Con la stessa filosofia dell'altra volta, sposata questa volta anche da uno strumento inusuale nel genere, la fisarmonica. Anzi tre. Tre pianisti, quattro contrabbassisti, un'orchestra di fiati ed archi e percussioni ed elettronica. L'obiettivo diventa ancora più ambizioso e l'improvvisazione stavolta sembra affiancata da un canovaccio di composizione, nonostante l'andamento, ovviamente, più che rapsodico della performance live registrata in Norvegia sotto il nome di "More fun, please!" (uscito per PNL Records), che è un'unica traccia di oltre trentatré minuti, che ha suscitato reazioni entusiaste da parte del pubblico. L'esecuzione parte con una sorta di appello: tutti gli strumenti fanno sentire la loro presenza uno alla volta, anche se già in maniera non disciplinata. Se in "Fluku" il sassofonista sembrava intenzionato a sputare i polmoni, questa volta è il flauto sopranino a voler battere il record di acuti più assordanti e sforzati possibile, ottemperando al gusto per gli estremi di Paul, condito da senso dell'umorismo. La gara tra striduli viene interrotta da violenti colpi orchestrali, da horror; questi paiono decisamente impossibili da essere improvvisati, essendo perfetti nella loro dissonanza. Alternati ad essi, un vibrafono zappiano gioca, in attesa del pianoforte preso a pugni nelle note più basse, come piace a tutti i pianisti nervosi (ma poi ci concede delle sessioni di arpeggi, seppur anch'essi dissonanti). Gradualmente si arriva al delirio totale, con la batteria di Love pronta a diventare protagonista. Tra tuba e fisarmonica, c'è una sorta di ritmica latina sezionata e scombinata, resa irriconoscibile. In quel momento però, coesistono dei temi di flauto e di corno francese reiterati, imitati anche da una delle fisarmoniche. Al diciottesimo minuto, l'incontro di archi, fiati ed elettronica live completamente noise, rappresenta il punto più gustoso di questa creatività anarcoide. Terminata questa fase, pianoforte e tuba eseguono una ritmica all'unisono, minacciosa e costante nel silenzio, corroborata dalle spazzole sul rullante della batteria. Inquietudini latenti alternate a scoppi al cardiopalma, e archi che a un certo punto sembrano inventare una situazione atonale programmatica, da primo Novecento. Viene lasciato poi largo spazio ai pianoforti, raggiunti in seguito dall'orchestra. Il finale, anziché essere prevedibilmente l'ennesima esplosione onanista, contempla un violino lasciato a piangere da solo, smorzando fino al pianissimo due esili note. Visti i precedenti, c'era da preoccuparsi, e invece questa esagerazione dell'esagerazione, ha forse effettuato il proprio giro dall'altra parte dello sbilanciamento, riequilibrandosi così, assottigliando il confine tra free jazz e composizione atonale, avvicinandosi di più forse a quell'ambizione di riportare il caos dell'universo in una musica che, per trovare un aggettivo, si potrebbe definire entropica. (Gilberto Ongaro)