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BODEGA  "Endless scroll"
   (2018 )

Pervaso, se non addirittura sovrastato, da una ostentata slackness di fondo cucita ad arte sull’intelaiatura più classica del post-punk, “Endless Scroll” marca a caratteri ben definiti il debutto per What’s Your Rupture? Records dei Bodega, quintetto di Brooklyn prodotto da Austin Brown dei Parquet Courts, influenza tutt’altro che trascurabile su queste quattordici tracce falsamente asfittiche.

Rispetto ai Courts, nervoso ed agitato nume tutelare ben presente nel mood complessivo dell’album, “Endless Scroll” procede sornione per il tramite di canzoni che si muovono in una comfort-zone a scarto ridotto, assemblando materiale in prospettiva intellettuale, disperdendo elettricità e frenesia a favore di un singhiozzante languore: a prevalere è così una musica agonizzante ed implosiva che mai deflagra, raggomitolata su sé stessa in una traiettoria che unisce Gun Club, Gang Of Four, Pavement e Steve Albini, gente che era in giro quando A. Savage & soci non erano nemmeno un’idea.

Strana creatura, i Bodega: due uomini e tre donne (Montana Simone e Heather Elle reggono la sezione ritmica) che affidano ad una forma espressiva non proprio di primo pelo velleità consistenti. Ottengono seguito con merito, faranno strada benché lontani anni luce dal proporre qualcosa di realmente devastante, profondo, stimolante. Ma ciò che fanno lo fanno divinamente: giocano sulla vocalità monotona e freddina di Ben Hozie, su uno scarnificato impianto a-melodico, su una pulizia dei suoni che non è sinonimo di gradevolezza, eppure dal cilindro estraggono un lavoro intrigante.

I brani si somigliano tutti: accennano senza completare, promettono senza mantenere, naufragando immancabilmente nel prossimo vicolo cieco, ma riuscendo – non si sa come – nell’impresa affatto scontata di suonare catchy. Apre così una maestosa “How Did This Happen”, piatta e monocorde ma in qualche modo ammaliante; lambisce i Beastie Boys (sic!) lo spoken-word truccato di “Name Escape”; indugia su un arpeggio stralunato “Boxes For The Move”; sfiora suggestioni à la Shellac “Margot”.

In coda arrivano i numeri migliori: la ballata elettrica à la Jayhawks di “Charlie”; la chitarra scordata che fa del crescendo di “Williamsburg Bridge” una sorta di “Sympathy For The Devil” in salsa Violent Femmes; il r’n’r caciarone della conclusiva “Truth Is Not Punishment”.

Nel mezzo del cammin, piazzata lì con noncurante lievità, si staglia prepotente la pigrizia balorda di “Jack In Titanic”, scazzata e ciondolante come una nenia sbavata di Beck rifatta da Jeff Mangum, con un ritornello-non-ritornello che ti scopri a latrare mentre ti radi davanti allo specchio, senza quasi sapere perchè.

Tutto già sentito, grazie, però funziona, e anche bene: con classe e – davvero – con invidiabile appeal. (Manuel Maverna)