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SIXCIRCLES  "New belief"
   (2018 )

Oscuro, tenebroso, a tratti ubriacante nel suo insistito strisciare come serpe, “New Belief” avvolge in una nube sulfurea l’esordio per Phonosphera Records del duo Sixcircles, al secolo la cantante Sara Montenegro ed il multistrumentista Giorgio Trombino.
Avvolto da una patina foscamente lisergica che ammicca ad una negatività implicita senza mai palesarla, accessibile, non spinto, lontano da sperimentalismi astratti come da estremismi di sorta, l’album dispensa la propria sottile malìa in nove tracce dal taglio quasi esoterico, suoni ed atmosfere che sembrano catapultati ai giorni nostri dalla Summer Of Love o da qualche indefinito buco spazio-temporale. Deliziosamente distopico ed anacronistico.
Da più parti ricondotto ad un ben riuscito compendio di psych/fuzz/acid folk, “New Belief” mi pare in realtà trovare ascendenze in un blues sporco e malaticcio, distorto e catatonico, sublimato nell’opener a due voci “New Belief Begins”, nel rallentamento mortifero della successiva “Blue Is The Colour”, o perfino nell’aria trascendente à la Mazzy Star (sic!) di una dolcemente psicotica “Come, Reap”.
Il tono è generalmente laid-back, privo di veemenza come di arzigogoli cervellotici. E’ musica claustrofobica ma semplice, un gioco infido che trova nelle dinamiche e nello sbilenco incedere meditativo l’essenziale ragion d’essere: “Time Of Erosion” è così una pigra elegia che esalta la propria slackness monocorde, spalancando un piccolo abisso sull’accoppiata “The Prison” e “Sins You Hide”, sinistro martellamento elettrico la prima, narcotico sferragliare barrettiano con deviazioni western à la Hazy Loper la seconda.
Tra echi di Low e Black Heart Procession, i tre brani posti in coda deprimono ancor più – volutamente: è il colpo di genio - il sentore vagamente perverso della raccolta, quel suo andare alla deriva quasi senza meta: “Late To Awake” - lenta, acustica, esitante - sono i White Stripes strafatti o una ennesima “Venus In Furs” che collassa nel nulla; “Take Me To Your Desert” è una ninna-nanna stralunata; “Lavender Wells” è un commiato dimesso che arranca desolato tra una cadenza percussiva ed una svenevole chitarra tendente al jazzy.
Sono brani a modo loro educati e composti, che rifuggono da violenza o inquietudine, conservando sempre una compassata compostezza di fondo elevata a tratto distintivo di un’arte mirabilmente concepita ed altrettanto scaltramente elaborata.
Mancano pezzi killer, non ci sono bruschi scarti o un’indole selvaggia al centro di questo caliginoso, tetro crocevia: ma i Sixcircles possiedono un’assoluta maestria – è più che altro un’intuizione, la stessa che ebbero, pur utilizzando forme espressive differenti, i For Carnation di Brian Mc Mahan – nel condurre altrove l’idea di partenza, conservando intatto un mood lievemente depresso e moderatamente allucinato, convertendolo infine in qualcosa di realmente indefinibile al di là delle apparenze.
Cambiando l’ordine dei fattori, il risultato cambia: sai - forse - qual è l’inizio, ma è la fine la più importante. (Manuel Maverna)