recensioni dischi
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ROZ VITALIS  "The hidden man of the heart"
   (2018 )

Originario di San Pietroburgo, Roz Vitalis è un collettivo russo formato oggi da sette elementi con aggiunta di un quartetto d’archi e svariati strumentisti in qualità di ospiti.

Attivi dal 2001, hanno alle spalle un nutrito repertorio ed una serie di album che ne hanno segnato l’evoluzione da progetto di studio ad ensemble elettroacustico cameristico, fino ad incarnare l’odierna mutazione in una vera e propria band.

Le coordinate lungo le quali si muove “The Hidden Man Of The Heart” sono quelle di una insolita declinazione del verbo prog, filtrato attraverso lo spettro di una musica sì ricca e pomposa, ma dimessa ed introversa nella sua anima più profonda, un bizzarro connubio di ben calibrati arzigogoli ed arie contrite sovente virate in minore.

Interamente strumentale, l’album si snoda sinuoso tra le spire avvolgenti dei fiati e la desolata mestizia degli archi, lungo un continuum che tocca vertici di straziante lirismo come di avvolgente introspezione: emblematiche la toccante opener “Someone Passed Over”, il breve interludio di “Trampled By The Lion And Adder”, le coinvolgenti “Wounded By The Lion And Adder” e “Some Refugee Passed Over”.

Tendono al neoclassicismo i passaggi pianistici di “Passing On The Line” e “Disturbed By Jungle”, vive su una frenesia jazz “Rhapsody Of Refugees”, procede trasognata la title-track fra una chitarra acustica, un solo knopfleriano ed una chiusa marziale impreziosita dai ricami della tromba.

Indulgendo, con la sagacia dei mestieranti di lungo corso, ad un impiego mai disturbante di tempi dispari e variazioni repentine come si conviene al genere, l’ensemble disegna trame ondivaghe che scuotono gentilmente gli episodi meglio riusciti: sono quelli più aperti e melodiosi, in cui meno insistono su intricate forzature che sanno di maniera. Diverse anime convivono fianco a fianco, spesso è la parte docile e sfuggente a prevalere, conferendo all’insieme un fascino sottilmente desueto che sa di profumi antichi e di colori seppiati.

Accade nel crescendo quasi bandistico di “Thou Shalt Tread Upon The Lion And Adder”, nell’aria sospesa ed impalpabile di “Blurred”, nell’epitaffio suadente di “Psalm 6”, otto minuti dolenti ed inquieti che sfiorano gli Eagles e Peter Green prima di spegnersi in una ballad tra gli Yes più accomodanti e qualche ombra di Deep Purple.

Disco per pochi intimi, semplicemente bello: sessantatre minuti di riuscita amalgama che concedono frequenti momenti di soavità e piacevolezza, legando con classe idee complesse ad una realizzazione davvero gradevole ed evocativa. (Manuel Maverna)