recensioni dischi
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LEONARD COHEN  "Songs from a room"
   (1969 )

Qualche critico superficialotto ha sentenziato che le sue canzoni sono istigazioni al suicidio; qualche giornalista un po’ cafone ha avuto pure la sfacciataggine di dirglielo, in un’intervista di qualche anno fa, chiedendogli anche perché. Al che Leonard Cohen ha glissato, e cambiando discorso ha evitato con eleganza di mandare a quel paese il cretino armato di microfono.

Certo che questo veterano dei cantautori per il mondo dello show-business è sempre stato un brutto cliente: assolutamente indifferente alle regole del mercato e alle operazioni di promozione, ha preferito vivere nei limiti del possibile come un essere umano invece che come una star, facendo uscire un proprio disco solo quando riteneva di avere sufficiente ispirazione. Insomma un artista vero e proprio, oltretutto polivalente: poeta, scrittore, e cantautore solo a partire dalla non più tenera età di 34 anni.

Provieniente da quella specie di bohème trasportata oltre Oceano che è il Canada, ha avuto un successo un po’ elitario ma costante, più europeo che americano. In effetti il suo modo di cantare, quasi declamando e accentuando i registri più bassi della sua voce già di per sé cavernosa, fa pensare ad uno chansonnier francese, venuto fuori però dall’altra parte del mondo; in più il carattere riflessivo ed “esistenzialista” delle sue poesie messe in musica lo avvicina più ai cantautori europei che ai musicisti rock del suo continente. Non per nulla in Italia uno dei pochi a capirlo è stato Fabrizio De André, che ha reso note in splendide traduzioni due tra le più straordinarie e toccanti composizioni di Cohen, “Suzanne” e “Nancy”, ritratti appassionati e indimenticabili di donne “diverse”, sostenuti, almeno in questi due casi, da motivi assolutamente ispirati.

A dire il vero non di rado questo poeta ha rivelato una sorprendente creatività musicale, non troppo penalizzata da chiari limiti tecnici. Dal punto di vista degli arrangiamenti Leonard Cohen è quanto di più scarno si può immaginare: poco più che chitarra e voce, rari elementi decorativi usati con parsimonia, come i cori femminili e il tipico “fiddle”, violino di accompagnamento di tradizione ebraica. Ma il suo è un tipo di musica strettamente funzionale alle emozioni comunicate dalle parole, e quindi non ha assolutamente bisogno di “effetti speciali”.

Al tardivo ma straordinario esordio del 1968 “Songs Of Leonard Cohen” (che a dispetto del titolo scontato è una miniera di classici), segue l’anno dopo la sua ideale continuazione, “Songs From A Room”, un titolo che suggerisce profonde riflessioni nate nel chiuso di una stanza, un mondo completamente diverso da quello dei grandi spazi mitizzati dagli autori di ispirazione “West Coast”, come i connazionali Neil Young e Joni Mitchell, californiani adottivi. Al posto di fantastici sogni di libertà e di sterminate praterie, qui troviamo confessioni intime e del tutto personali, come l’essenziale e trasparente “Bird On The Wire”, specie di canzone-specchio, il cui testo ruota intorno al fondamentale verso “ho cercato a mio modo di essere libero”, o come la più tetra “I Know Who I Am”, amaro bilancio di un rapporto amoroso estremamente contorto (”Non posso seguirti, amore mio, tu non puoi seguire me, io sono la distanza che hai frapposto ai momenti che saremo…”).

Più spesso le riflessioni non sono così esplicite e dirette, ma scaturiscono da immaginari incontri con figure altamente simboliche, così che certe canzoni finiscono per sembrare brevi parabole di ispirazione biblica, e probabilmente su questo aspetto influisce non poco l’origine ebraica di Cohen. Il riferimento è evidente nell’appassionante “Story Of Isaac”, in cui l’episodio biblico viene preso come premessa per sviluppare una riflessione sull’assurdità della guerra, ma anche figure come il macellaio che squarta l’agnello in “The Butcher”, la “donna dalle rughe sul volto” di “Lady Midnight”, per quanto tratteggiate magistralmente, sembrano più simboli astratti che persone reali.

Alla fine i personaggi più concreti e palpabili rimangono la morbida amante di “Tonight Will Be Fine”, esempio più unico che raro di canzone “positiva” di Cohen, e la tragica Nancy di “Seems So Long Ago, Nancy”, con la sua solitudine assoluta e senza speranza, travestita da libertà, e con l’inevitabile suicidio. Agli argomenti di carattere politico e sociale è riservato poco spazio: è più materia da Dylan che da Cohen.

C’è ancora l’orrore della guerra in “The Partisan”, che con i suoi cori angelici è anche uno dei brani musicalmente più riusciti, e c’è la tremenda disillusione di chi ha combattuto per qualcosa che si è rivelato inutile nella spietata “The Old Revolution”. Nel complesso un classico della canzone d’autore, imperdibile per chi ama la poesia, la musica e il loro incontro. E soprattutto nessuna istigazione al suicidio, ma solo al pensiero e alla riflessione, che non mi risulta abbiano mai ucciso nessuno. (Luca "Grasshopper" Lapini)