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GIORGIO GABER  "La mia generazione ha perso"
   (2001 )

“E chi se ne frega?” sarà la probabile reazione della maggior parte dei ventenni o giù di lì nel leggere il titolo di questo disco, ammesso che siano al corrente dell’esistenza di Giorgio Gaber. Se lo sono, vedranno la sua generazione, quella dei sessantenni, come un pianeta lontanissimo e sconosciuto, come in fondo è abbastanza naturale, specialmente in un mondo obbligato a vivere in un eterno presente, dimenticando che quello che siamo dipende soprattutto dalla nostra storia. Ma per chi ha un’età più o meno intermedia tra Gaber e loro è molto più difficile ignorare che le sconfitte di quella generazione, con le sue utopie e i suoi ideali, ci hanno preparato un mondo a dir poco scomodo, ostile a chi non ha come unico pensiero quello di arraffare più denaro possibile, preferibilmente fregando gli altri, il che dà sempre grande prestigio. Per questo quando ascolto “La mia generazione ha perso” la mia partecipazione a questo sincero e lucidissimo bilancio in forma di disco, è totale e commossa, alla faccia dei venti e passa anni che mi separano da Gaber. Siamo nel 2001, ma parte del materiale presente appartiene alle memorabili stagioni teatrali degli anni ’70 e ’80: il “Signor G” aveva l’occhio lungo e molti degli anatemi di allora contro il pericolo di una graduale trasformazione degli uomini in pecore sono ancora tremendamente attuali, anzi lo sono ora più di allora. Le canzoni di quei tempi, insieme a quelle recenti, sono presentate sotto una veste musicale più che buona (produzione di Beppe Quirici, lo stesso di Ivano Fossati), ma al centro, come nei vecchi dischi che riportavano pari pari gli spettacoli teatrali, c’è lui, il grande mattatore, ci sono le sue parole a volte ironiche, a volte feroci, altre volte commoventi, ma sempre e comunque intelligenti. Un disco “con dentro chili di cervello”, si direbbe dalle mie parti. “La razza in estinzione” contiene il verso che dà il titolo all’album ed è forse il momento di disperazione più nera: Gaber si sente davvero solo contro tutti, non trova nessun riferimento in un mondo che sperava “magari con un po’ di presunzione di cambiare”, e se lo ritrova sì cambiato, ma in senso opposto. Vede avanzare paurosamente figure grottesche, come “Il conformista”, ritratto molto italico di voltagabbana sempre pronto a “pensare per sentito dire” a seconda delle convenienze, e “L’obeso”, personaggio più universale, una mostruosa cloaca umana che ingurgita tonnellate di dati, notizie, informazioni, uno che sa sempre tutto senza capire mai nulla. Il pessimismo di “Verso il terzo millennio” rasenta livelli gucciniani, e si rispecchia anche nella tristezza della musica; solo nel finale affiora una speranza: “ma io ti voglio dire che non è mai finita, che tutto quel che accade fa parte della vita”. L’unica arma per combattere questo stato di cose rimane l’ironia, e Gaber ne ha dei serbatoi inesauribili. Ecco quindi canzoni come “Si può”, dove un allegro ritmo sudamericano accompagna una spassosa rassegna delle tante “libertà obbligatorie” che ci concede il mondo attuale, ma poi arriva come uno schiaffo una domanda agghiacciante: “Ma come, con tutte le libertà che avete, volete anche la libertà di pensare?”. E non si creda che, essendo Gaber di sinistra, la critica sia a senso unico: chiunque senta “Il potere dei più buoni” non farà fatica a riconoscere i tanti professionisti del sociale, “iscritti a mille associazioni”, che infestano soprattutto proprio la sinistra. Ma in fondo poi cos’è la destra, e cos’è la sinistra? “Destra-Sinistra” con una serie di esempi paradossali cerca di spiegarci le eventuali differenze, ma quel che viene fuori è un divertentissimo nonsense, in cui i due schieramenti appaiono fin troppo simili. “Quando sarò capace d’amare” e “Un uomo e una donna” sono due tenerissime canzoni d’amore, e al tempo stesso due amare riflessioni su come la società attuale condizioni pesantemente anche i rapporti tra uomo e donna. “Canzone dell’appartenenza” è invece una profonda rappresentazione del dramma di un uomo libero che in quanto tale non trova corrispondenza nella maggior parte degli altri. Il verso rivelatore è alla fine: “sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire NOI“. Ma il momento più coinvolgente è un monologo tratto da uno spettacolo teatrale: “Qualcuno era comunista”. Nel sentire le parole di Gaber che ci elencano i mille motivi per cui qualcuno era comunista, prima si ride (“qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona… qualcuno perché Andreotti non era una brava persona”), poi ci si incazza (“qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, e poi l’Italicus, Ustica, la strage di Bologna eccetera eccetera eccetera!”) e alla fine si piange, perché il discorso diventa universale, e vale anche per chi (come me) non è mai stato comunista. Alla fine infatti rimane l’uomo solo, senza più Utopia (di qualsiasi genere essa sia), con il suo sogno che “si è rattrappito”. E questa è la peggiore delle sconfitte: qui ad aver perso sono tutte le generazioni. (Luca "Grasshopper" Lapini)