recensioni dischi
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WHISPERING SONS  "Image"
   (2018 )

Celati da una cortina di vapore mistico, avvolti nella nube sulfurea di un deja-vu che sa di arsenico e vecchi merletti, protetti da uno schermo traslucido che restituisce soltanto ombre in un velato pallore lunare, i Whispering Sons da Houthalen-Helchteren, cittadina belga di trentamila anime nelle Fiandre, sono un quintetto fiammingo che ha esordito nel 2016 con “Endless Party”, ep di sei tracce che ne poneva già in debito risalto l’attitudine oscura e la claustrofobica indole.
Su etichetta Pias/Smile, introdotto dall’artwork lascivo ed ambiguo di Flor Maesen, “Image” li ripresenta immersi in quella medesima aura di glaciale decadenza che di nuovo ne rabbuia l’anima ed eleva a vette di toccante introversione questo memoriale di passati splendori in noir.
Incline ad un mood sepolcrale esaltato dall’algido baritono cavernoso della cantante Fenne Kuppens, “Image” è un’incessante sequenza di arie sofferenti che muovono da lugubri echi di Bauhaus a tensioni velvetiane, inanellando dieci episodi segnati da una teatralità incupita, altrettante invocazioni minacciose – immancabilmente in minore – talora sventrate da impennate repentine e drammatiche (“Stalemate”, “No Time”).
In un registro sinistramente gutturale e metronomico, Fenne conduce l’ossessiva cadenza robotica di “Fragments”, lacerata dalla frase della chitarra e dall’incedere spettrale del basso, nel grembo di una danse macabre memore - come pure la caracollante cadenza nervosa di “Hollow” – dei Sisters Of Mercy degli albori; “Waste” oscilla dilatata e sospesa su un tema esitante, appena punteggiata da tremolanti figure della chitarra prima dello scatto che ne scuote il finale, con la voce catacombale di Fenne che si innalza di un’ottava sulla martellante ripetizione conclusiva.
Lo chiamano post-punk, ma chissà: forse è soltanto una declinazione tardiva della dark-wave del tempo che fu. Nei suoni, nella metrica del canto, nelle intenzioni, nel nero grondante come pece sul passo sbilenco à la Interpol di “Alone”, sulla rasoiata elettrica che apre “Dense”, ballo scomposto e frenetico sfregiato da una cantilena aspra e dolente; o sul fosco rallentamento sciamanico di una “Skin” che ricorda Nico mentre si libra su distillate note flangerate da Cure periodo “Faith”.
Tenace ed indefesso nel suo insistito flirtare con la tenebra, “Image” disegna un abisso spalancato sul nulla: quello ritratto nella chiusura dimessa di “No Image”, guidata da un pianoforte lontano che evoca e strazia prima di deragliare in una nenia sintetica ricolma di tristezza, forse la sola via percorribile per questa musica mesta e stravolta, indolente e agonizzante.
Una sinfonia di negatività disperata e perduta, ammantata da un sudario di soffocante tetraggine.
Piccolo capolavoro, in un suo modo distante e criptico. (Manuel Maverna)