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BOB DYLAN  "The bootleg series vol. 14: More blood, more tracks "
   (2018 )

La nuova uscita nell’installazione della Bootleg Series di Bob Dylan, nata nel 1991 e oggi alla puntata quattordicesima, offre la possibilità, come era avvenuto per il biennio 1965-1966 con il Vol. 12: The Cutting Edge (2015) e, in un contesto diverso, per il 1967 con il Vol. 11: The Basement Tapes Complete (2014), di entrare in studio con Bob Dylan e di seguirlo nelle sessioni di registrazione di Blood on the Tracks, uno dei capolavori più significativi e poetici tra i suoi e, più in generale, di tutta la storia della musica. Registrato nel 1974, il disco sarebbe uscito nel 1975 e avrebbe compreso cinque take registrate a New York a settembre in quattro giorni e cinque ri-registrate a Minneapolis a fine dicembre in due giornate, subito dopo Natale. L’edizione deluxe di questo volume, in 6 CD, contiene tutti i take delle New York Sessions: qui Bob spesso suona da solo, a volte è accompagnato da un’intera band, altre volte solo dal basso, altre volte ancora da basso, piano e steel guitar. L’edizione 1CD/2LP contiene un take newyorchese per ciascuna delle dieci tracce di Blood on the Tracks più l’outtake “Up to Me”. Il box completo contiene tutte le sessioni newyorchesi, che si tennero dal 16 al 19 settembre 1974 e circolavano in piccola parte su bootleg da almeno quattro decenni, e i cinque surviving takes delle sessioni di fine dicembre a Minneapolis, che finirono su Blood on the Tracks leggermente velocizzati, e che ora sarà possibile ascoltare nella forma in cui vennero registrati originariamente.

La storia della composizione e registrazione di Blood on the Tracks è estremamente nota e complessa. Nel 1974 il matrimonio tra Bob Dylan e la moglie Sara, che durava da quasi nove anni, era ai minimi storici, e, anche se Dylan ha poi affermato che l’ispirazione per le canzoni di Blood fosse arrivata grazie ai racconti di Cechov, è chiaro che il tema dell’album – amori finiti, situazioni tragiche, ménage andati male, e una salvezza mai a portata di mano, mai scontata – sia ispirato a quella crisi. Dopo la lunga permanenza a Woodstock, Bob era ritornato a New York nel 1973. Aveva intrapreso un comeback tour trionfale insieme a The Band nell’inverno del 1974 e aveva poi registrato Planet Waves. Stava studiando pittura in un attico a poca distanza dalla Carnegie Hall, nello studio di Norman Raeben, artista che, in base a quanto si racconta, diceva ai suoi alunni che passato, presente e futuro dovevano essere rappresentanti contemporaneamente. Forse Raeben disse, a un Bob che stava dipingendo un vaso di fiori, che era “all tangled up in blue”, tutto aggrovigliato nel blu. Chissà se questo episodio – più mitologia che storia – sia vero o no, e se abbia ispirato o meno il titolo del brano di apertura del disco. Forse a ispirare quel titolo è stato l’album Blue di Joni Mitchell (1971), che in quel periodo Bob ascoltava in continuazione, e dal quale potrebbe aver ricavato l’accordatura aperta che caratterizza tutte le New York Sessions.

Negli A&R Studios di New York ci sono il produttore Phil Ramone e una band pronta a seguire Bob in caso decida di eseguire alcuni brani con loro. Bob registra tutto in quattro giorni ed è soddisfatto del risultato, tanto che l’album è pronto per essere stampato e uscire a fine dicembre o a inizio gennaio. La Columbia dà alle stampe alcuni acetati promozionali per le radio e diverse test pressing per stampa e conoscenti. Tuttavia, tornato a Minneapolis per le vacanze natalizie, Dylan, anche consigliato dal fratello, cambia idea: non è del tutto convinto del disco che sta per essere pubblicato e decide di registrare nuovamente alcuni brani. Assembla una band sul momento e ne ri-registra cinque, che finiranno sull’album – in uscita, ora definitivamente, a gennaio. A produrre queste tracce è Paul Martinson. I nomi di questi musicisti non vennero neppure riportati nei credits del disco; solo oggi, finalmente, le loro identità vengono riconosciute e indicate nelle liner notes del box.

Dylan entra negli A&R Studios di New York il 16 settembre con la convinzione, pare, di registrare un disco interamente da solo, con chitarra acustica e armonica. I primi tentativi dimostrano che Bob aveva le idee chiare: le canzoni provate hanno una forma già ben definita e strutturata. I due take di “If You See Her, Say Hello” colpiscono dritti al cuore. Il primo è in Open D, il secondo invece in Open E. Bob decide ben presto di inserire il capotasto sul secondo ponte della chitarra; sarà questa la tonalità che caratterizzerà tutte le restanti sessioni newyorchesi, eccetto qualche pezzo in cui Bob sposta il capotasto più avanti. “If You See Her, Say Hello” contiene al suo interno tutti quelli che saranno i temi dell’album: la fine di una relazione, l’amarezza che si prova a causa di un amore perduto, il cinismo e il risentimento che ne derivano e che avevano caratterizzato già in passato molte delle grandi canzoni di Bob. Schiettezza e sincerità (“either I’m too sensitive, or else I’m getting soft”) sono unite qui a un fatalismo imponderabile e indecifrabile (“for I know it had to be that way – it was written in the cards / though the bitter taste still lingers on – it all came down so hard). Verrà registrata ancora il 19, in un take finito sulla test pressing dell’album, e infine a Minneapolis, nella versione che finirà sul disco, con notevoli variazioni nel testo e nell’arrangiamento.

“You’re a Big Girl Now” e “Simple Twist of Fate” sono ulteriori perle. Dylan canta splendidamente; la sua dizione un po’ sporca e precisa al tempo stesso squarcia l’animo dell’ascoltatore. I primi take vedono l’autore che canta quasi a (e per) sé stesso, nel silenzio totale dello studio di registrazione, afflitto da un profondo senso di solitudine e con un matrimonio che sta andando a pezzi. Tutto questo si percepisce dalla delivery del testo da parte di Bob, dalla sua meravigliosa armonica spezzata e di tanto in tanto stridente, da un cantato assorto e rapito, concentrato solo su sé stesso. “Simple Twist of Fate” viene registrata anche con la band, sempre il 16, e con l’accompagnamento del basso qualche giorno dopo, mentre l’altra, oltre ai take con Bob da solo, viene provata anche con il tappeto di organo, basso e steel guitar. Di “Simple Twist of Fate” è l’ultima versione registrata a New York a finire sul disco; per quanto riguarda “You’re a Big Girl Now”, invece, servirà il ritorno in Minnesota a convincere Bob. “Up to Me”, uno dei pochi outtake di Blood on the Tracks, nel quale si rintracciano nuovamente tutte le abilità poetiche di Dylan, viene eseguita parecchie volte (due il primo giorno e ben sette l’ultimo). Arriva poi “Lily, Rosemary and the Jack of Hearts”, prima in una rehearsal di tre minuti, poi nella versione integrale, l’unica registrata a New York, di quasi dieci minuti, finita sulla test pressing. Questa versione, che circolava su bootleg già dagli anni Settanta, colpisce sia per la delivery vocale perfetta sia per la strofa in più che Dylan decise poi di cassare a Minneapolis, che inizia con “Lily’s arms were locked around the man that she dearly loved to touch”.

“Call Letter Blues”, un altro outtake, compare in tre versioni tra 16 e 17 settembre, di cui due con la band, ma scompare ben presto, sostituita da “Meet Me in the Morning”, meno autobiografica (in “Call Letter Blues” Bob canta che “i bambini piangono per avere la mamma; dico loro che mamma è partita per un viaggio”, un riferimento non troppo velato alla deriva della sua relazione con la moglie Sara) e più romantica e astratta. “Meet Me in the Morning” viene registrata anche con il basso per ben quattro volte il 19 settembre, quando Mick Jagger era passato a trovare Bob in studio, e dove a colpire è anche un’armonica lacerante. I primi tentativi della gemma “Idiot Wind”, con testo piuttosto diverso dalla versione di Minneapolis, pur essendo timidi e insicuri, sono di una bellezza primordiale e rara. Il brano prende il volo tentativo dopo tentativo. Cinque versioni furono registrate il primo giorno e tre l’ultimo, tutte con l’accompagnamento di chitarra e basso e con una splendida armonica; all’ultimo take venne aggiunto anche un malinconico overdub di organo. Il brano è una dura accusa da parte di Bob all’(ex) amata, a chi racconta bugie sulla sua vita privata, a chi pensa di avere risposte pacificanti ma semina solamente astio. Sarà la versione di Minneapolis a convincerlo, ma qualsiasi esecuzione newyorchese non incompleta è addirittura superiore.

Un discorso a parte, ovviamente, merita “Tangled Up in Blue”, uno dei brani più complessi a livello lirico che Dylan abbia mai scritto. Dal primo take, ultimo brano registrato il 16 settembre in tarda notte, alle tre versioni del 17, fino ai cinque tentativi del 19, la voce di Dylan si dilata sempre di più, misura ogni sillaba, e sembra occupare – fondare – il testo. Ben presto “he”, “she”, “I” e “they” si fondono in un’unica entità – quei presente, passato e futuro tutti nella stessa stanza. Nell’ultimo giorno delle sessioni di New York la canzone è diventata spettrale, intricata e sfuggente, un capolavoro totale. Verrà registrata anche a Minneapolis, in un arrangiamento più caldo e ritmato, e sarà quella la versione che finirà nell’album.

Un brano provato una sola volta durante le sessioni newyorchesi è il traditional “Spanish Is the Loving Tongue”, un classico country dal quale Bob è forse stato ossessionato, avendolo registrato già diverse volte nel 1970 e avendolo eseguito dal vivo in quegli anni. Ne viene registrato un unico tentativo, con basso e piano, effettuato il 17 settembre. Per quanto riguarda “You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go”, i vari take registrati con la band non convincono Bob, anche se il quinto è uno dei momenti più alti della giornata del 16 e ci ricorda che Dylan è anche un cantante strepitoso. Il 17 settembre il brano viene provato con basso e pianoforte, poi solo con il basso; sarà la seconda di queste due versioni a finire sul disco.

“Shelter from the Storm” compare con quattro take. Dylan, sempre alla chitarra e all’armonica, è accompagnato dal basso: l’ultimo take è quello scelto per l’album, ma strepitoso è anche il primo, che contiene una strofa in più e venne inserito nella colonna sonora di un film del 1996. “Buckets of Rain” subisce molte modifiche: prima è provata col basso, il 17; poi, il 18, vennero eseguiti tre take con Bob da solo, che sono anche le uniche registrazioni della giornata; infine, il 19, altri cinque take, con l’accompagnamento del basso. Disperata, amara, a tratti persino ironica, questa canzone concluderà Blood on the Tracks lasciando l’ascoltatore in una condizione di forte inquietudine: “Life is sad, life is a bust / all you can do is do what you must / you do what you must do and you do it well”.

Blood on the Tracks è uno dei dischi più importanti della storia, una rivoluzione – l’ennesima innescata da Dylan – nell’arte dello scrivere canzoni, nonché uno degli album dylaniani che ha subito più variazioni nel testo e negli arrangiamenti sia nel corso delle sessioni di registrazione sia durante le esibizioni dal vivo nei decenni. Per stimolare ulteriormente la curiosità del dylanologo la Columbia ha deciso di inserire, nell’edizione deluxe del box set, la riproduzione integrale di uno dei tre taccuini di 57 pagine che Bob riempì durante la composizione dell’album. Al suo interno si possono leggere i testi delle canzoni, prima abbozzati e poi maggiormente definiti, in mezzo a tante rielaborazioni e annotazioni. Ma la grande vittoria di questo Bootleg Series sta nel fatto che rende giustizia sia al mito sia alla storia: racconta i retroscena in punta di piedi, con accuratezza e coinvolgimento, senza svelare il mistero della perfezione che si cela dietro il capolavoro. (Samuele Conficoni)