recensioni dischi
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ANGELO BRANDUARDI  "Branduardi canta Yeats"
   (1986 )

Poesia e musica: è bello vederle sgorgare insieme, già perfettamente fuse, ma è anche un fenomeno assai raro. Più facile trovare ottimi poeti o narratori che usano la musica come un semplice sfondo per le loro storie, come la gran parte dei cantautori italiani, oppure musicisti puri per i quali i testi sono poco più che un commento alle suggestioni già create con le note. Angelo Branduardi appartiene senz’altro a quest’ultima categoria, anche se personalmente ha sempre coltivato la passione per i bei versi, come dimostra la meravigliosa ballata intitolata “Confessioni di un malandrino”, traduzione di una poesia di Sergei Esenin, che risale ai suoi esordi. Nel 1986, quando ormai il grande successo popolare delle sue famose, troppo famose filastrocche stava declinando, se ne uscì con questo progetto, un po’ ambizioso ma pienamente riuscito, di un connubio tra musica e poesia. “Branduardi canta Yeats” è un’antologia di 10 poesie, convertite in altrettante ballate, di William Butler Yeats, grande poeta simbolista irlandese, tra l’altro molto caro a Van Morrison, che ne ha tratto vari spunti per i suoi testi più profondamente celtici. Se invece del signor Angelo Branduardi da Cuggiono (MI) un lavoro del genere l’avesse realizzato uno con un nome tipo Angus O’Branduaird, magari originario di Kilkenny, probabilmente si sarebbe gridato al miracolo. Ma proprio un altro irlandese, di nome Oscar Wilde, non a caso ha scritto una deliziosa commedia, solo apparentemente frivola, sull’importanza di avere il nome giusto (Ernesto). Fatto sta che questo prezioso disco, musicalmente irlandese a tutti gli effetti, è stato penalizzato dalla lingua e dal nome italiano dell’autore, oltre che dall’essere uscito con qualche anno di anticipo sul boom commerciale della musica celtica. E dire che questa volta la principale “responsabile” dei testi spesso un po’ fanciulleschi di Branduardi, la moglie Luisa, aveva fatto un ottimo lavoro, con traduzioni rispettose dell’originale. Le musiche poi sono tra le migliori che Branduardi abbia mai composto, anche se la più bella in assoluto, la visionaria “Canzone di Aengus, il vagabondo”, appartiene a Philip Donovan Leitch, una specie di suo alter ego scozzese, insomma un altro “menestrello”. Di Branduardi tutto il resto, con diversi picchi di eccellenza, come “Quando tu sarai…”, ispirata ai teneri ricordi di una donna ormai anziana, che scorrono lievi, sorretti da una malinconica chitarra classica. Chi conosce il capolavoro “Gulliver, la luna e altri disegni” ritroverà atmosfere simili e la stessa straordinaria capacità di dipingere paesaggi incantati, in parte smarrita negli album più popolari. Per esempio “I cigni di Coole”, perfetto quadretto autunnale, con il lago e con i suoi cigni che stanno per volarsene via per chissà dove “sulle loro ali sonore”. Certo partire da versi come quelli di Yeats non è un aiuto da poco, ma le musiche sono cucite perfettamente su queste poesie. Esempio lampante “Ad una bambina che danza nel vento”, neanche due minuti di musica delicata come un velo leggero che sembra creato da una fata per avvolgere teneramente i versi. Ma si può dire che in ogni ballata risplende almeno una parte di questa armonia. L’indubbio fascino celtico di tutto il disco è dovuto ad un sapiente uso delle due chitarre acustiche dello stesso Branduardi e del fido Maurizio Fabrizio: il fitto dialogo tra i loro arpeggi non fa rimpiangere l’assenza di un’arpa vera e propria, e in più è arricchito qua e là da interventi di violino e flauto, sempre di Branduardi, e dove occorre, sostenuto dalle percussioni del brasiliano “Papete” de Ribamar, sempre contenute e discrete come esige un disco del genere. Fa razza a sé l’ultimo brano, “Innisfree, l’isola sul lago”, che si avvale di una vera e propria orchestra d’archi e chiude questa specie di idillio con versi che evocano la natura, che non abbandona mai il profondo del cuore, anche (e soprattutto) di chi si trova nel caos di una città grigia. Ma tutto il disco sembra fatto apposta per chi ama la natura: il suo suono è “verde” come i prati, come i boschi, come l’Irlanda. (Luca "Grasshopper" Lapini)