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EVI VINE  "Black light white dark"
   (2019 )

Una nuova realtà della nuova musica oscura? Non siamo ancora pronti per sbilanciarci a tanto. Certamente Evi Vine e la sua arte dei suoni non sono esattamente quel prodotto musicale stereotipato per cui le radio lotteranno nel tentare di accaparrarsi i pezzi.

Per l’etichetta “Solemn Wave Records” sembra piombarci addosso un’ondata di tristezza, inquietudine e tenebre capace di catturare. “Black light white dark”, è questo il titolo del lavoro sulla lunga distanza che la giovane musicista (di stanza a Londra) ha pensato per aprirsi le porte della notorietà; un lavoro suddiviso in sette tracce in cui il leit motiv è quello di una implosione triste ed al tempo stesso violenta. La copertina pare già d’effetto: una sorta di buco nero (o di un sole) ma visto come in negativo, come se ciò che normalmente è raffigurato buio sia qui di un bianco splendente e, viceversa, ciò che ci immaginiamo chiaro sia solamente un contorno dalle linee nere.

Quando Andrea Rossi mi suggerì l’ascolto di “Black light white dark”, lo fece come si fa con il formaggio per i topi. “C’è una nuova artista… ci suona pure Simon Gallup!!!”. Ed il topo ci è cascato in pieno. Però partiamo subito con il dire che, qui, i Cure non c’entrano proprio nulla, nonostante la presenza dell’eterno compare di Robert Smith. Ed allora, che suono sarà mai quello della Evi Vine? L’aiuto (prima di accendere la risposta sbagliata) arriva direttamente dall’artista, quando indica, quali destinatari dell’album, i fan di alcune note band tra cui Cocteau Twins, Swans, Faith and the Muse, Portishead, tra gli altri.

Ci sentiamo di non contraddire Evi Vine. Fin dal primo ascolto, abbiamo proprio la sensazione di ascoltare qualcosa di molto affine ai sopraccitati gruppi. Più di tutti i Portishead, soprattutto sul versante vocale, in cui è a tratti sorprendente la somiglianza con Beth Gibbons.

Con “I am the waves” si apre l’ascolto attraverso una canzone dominata da loop chitarristici (opera della stessa Evi Vine), colpi di tastiera che danno l’atmosfera adeguata, giochi percussivi, quasi spettrali e, a galleggiare sul tutto, una voce pulita ed ispirata. È uno dei brani più coinvolgenti, in cui le trame profonde si mescolano ad un cantato sofferto ed evocativo.

“Sabbath” è il singolo in cui c’è l’ospitata di Simon Gallup, ancorché apprezzabile, non ne ripete la medesima intensità. Quasi post rock nel cambio di ritmo e nelle successive esplosioni chitarristiche di stampo heavy, è accompagnato da un video veramente violento (con omaggi allo “Psyco” di Hitchcock), in cui sangue che scorre a fiumi ed altre immagini cruente ci fanno capire come Evi Vine non sarà mai la futura reginetta di MTV.

Il resto dell’album prosegue su questa falsariga; con una “My only son” che si presenta con un incedere più sommesso, meno aggressivo e triste; una transitoria “We are made of stars”, dominata da effetti e dalla programmazione, ed una “Afterlight” in cui il cantato si trasforma in un sussurro, abile a ritagliarsi spazi tra i feedback di chitarra.

“Sad song no.9” chiude “Black light white dark”: ancora post rock in un brano dove, ad un inizio delicato, seguono loop violenti che dialogano perfettamente con la batteria, sempre in primo piano e capace di portare il pezzo in un crescendo di intensità. (Gianmario Mattacheo)