recensioni dischi
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ENYA  "Shepherd moons"
   (1991 )

Uno degli aspetti che fanno della musica la più affascinante tra le arti è la frequenza con cui sa offrirci non solo miracoli isolati, ma anche bis di miracoli, e a volte perfino miracoli a catena. Non si contano gli esempi di apparenti “cloni” di grande valore, disseminati in ogni genere. “Shepherd Moons” di Enya è un caso particolarmente appariscente. Impostato su un suono praticamente identico al predecessore “Watermark” riesce a replicarne in pieno l’equilibrio perfetto tra misterioso fascino celtico e raffinata grazia new age, il tutto senza tracce o quasi di copiatura dei sublimi motivi contenuti nel suo modello. Inizia con una magica immersione in atmosfere pastorali, “Shepherd Moons” appunto, che va molto al di là della suggestione del titolo: in questo fantastico brano strumentale alla trama di suoni del pianoforte e dell’arpa risponde l’eco di solenni cori da musica sacra, che tuttavia non appesantiscono mai il quadro idilliaco creato da questa musica, che per quanto mi riguarda è quello della quiete incantata di una notte di luna in una valle boscosa, magari con una leggera foschia. Le pecore e il pastore sono un optional: chi vuole può immaginarle. “Caribbean Blue” ha un titolo ingannevole, che suggerisce influenze di suoni caraibici. Nulla di più diverso: si tratta invece di un lento e maestoso valzer, sostenuto dal basso, unica base ritmica che riesce miracolosamente a legare insieme con armonia i suoni degli archi, delle tastiere metalliche in perfetto stile clavicembalo, dei divini cori da messa barocca, e infine della angelica voce di Enya, una somma di voci che trattate con meno maestria potrebbero produrre un gran pandemonio. Per me, insieme a “Shepherd Moons”, è la vetta dell’album, e stranamente è stato anche il suo brano di punta (in quest’album non c’era una filastrocca fatta apposta per essere passata alla radio come “Orinoco Flow”). “How Can I Keep From Singing?”, ovvero “Come posso trattenermi dal cantare?”: il titolo parla da solo, e infatti pochi brani sanno valorizzare come questo la purezza della voce di Enya. Ciò grazie ad un’orchestrazione volutamente dimessa e ad un tema irresistibilmente cantabile, secondo il modello di “On Your Shore”, ma senza scopiazzature. “Ebudae” è un breve canto tradizionale sostenuto da una raffinata ritmica, uno dei pochi episodi non memorabili, ma è comunque gradevole. “Angeles” è un altro splendido esempio di delicatissimo intreccio tra voce solista e cori soavi, anche qui con strumentazione soffusa, vellutata. “No Holly For Miss Quinn” non è altro che la riproposizione di “Angeles” in una sobria e pulita versione per pianoforte solo, molto classica. E’ evidente che il modello è “Watermark” del primo album, ma anche qui non c’è una nota copiata. Ritmo un po’ più sostenuto e motivo più semplice e orecchiabile in “Book Of Days”, dove si affacciano vere e proprie percussioni (una rarità in Enya), che in gara con le nitide tastiere vivacizzano fin dall’inizio questa canzone. “Evacuee” è un’altra dolcissima composizione che sembra fatta apposta per mostrare in tutta la sua limpidezza le doti vocali di Enya, mentre “Lothlorien”, magico carillon celtico di tastiere e arpa, pur ripetendo tenacemente il solito (ma ispiratissimo) motivo, è uno dei momenti più suggestivi del disco, sicuramente il più vicino al misterioso mondo dei Celti. “Marble Halls”, ripresa da un tema tradizionale, offre, su un tappeto di morbidi bassi e cori celestiali, un saggio dell’impostazione vocale della cantante irlandese, che qui raggiunge davvero livelli da musica lirica, e non esagero. Appena un po’ al di sotto della perfezione la coda: “Afer Ventus” tenta di ricreare l’estasi assoluta della precedente “The Long Ships”, ma ha un tema un po’ più ordinario, e infine “Smaointe”, ad ulteriore conferma del parallelismo con “Watermark”, si rifà all’ultimo brano in gaelico di questo disco, senza raggiungerne il fascino arcano. Quisquilie comunque, che può notare giusto chi è abituato a cercare il pelo nell’uovo, e che non bastano certo a negare il titolo di capolavoro a questa splendida “copia”. (Luca "Grasshopper" Lapini)