recensioni dischi
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THE STACHES  "This lake is pointless"
   (2019 )

Avete presente quella wave/post-wave/no wave/post-no wave dove le canzoni suonano spigolose o – i recensori bravi dicono così - angolari?

Quei pezzi tutto sommato fastidiosetti in cui la band macina dissonanze assortite mentre il canto va per conto suo fra spoken e urletti con corredo di scordature metalliche, disarmonie e catatonia sparsa, ma conservando in fondo in fondo intatta una struttura da pop-song strafatta?

Insomma: riuscite ad immaginare un pastiche tra Pixies, Bodega, Speedy Ortiz e Sonic Youth, benchè piuttosto calligrafico nel suo travestimento da No New York e discretamente avaro di lampi di genio?

Se avete capito di cosa parlo, siete proprio bravi: avrete perfettamente inquadrato The Staches, due donne e due uomini originari di Ginevra e stanziati a Lipsia che nelle dieci tracce di “This lake is pointless” danno brillante sfoggio di intellighenzia e art-pop da non-classifica.

Nei trentadue minuti della loro terza fatica magari non offrono nulla di nuovo, anzi: tuttavia fanno egregiamente la loro lussuosa figura in un disco ben realizzato, con quegli impasti un po’ scazzati tra le voci e quegli incastri basso-batteria che paiono forzati, ma funzionano in un qualche bizzarro modo che dirvi non so.

Stemperate da una velata goliardia (“Beaver love”, “Thank God for Mc Donald’s), si susseguono accelerazioni improvvise (“Great depression”, “Savory Savoir”) e vignette surreali in un’atmosfera avant che paga qualche debito e si bea di sé, mentre i quattro si baloccano imperterriti con trame ostiche e rare concessioni a strutture più accomodanti (“Hyper punk”) o ad accenni di melodia protratti per più di qualche fugace istante (“Hummus”, in pieni anni Ottanta).

Forse è semplicemente post-punk, o forse, come suggerito dalla cartella stampa, non è niente di tutto ciò e who the fuck cares. E se non importa a loro... (Manuel Maverna)