recensioni dischi
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GINAH  "Meccanica"
   (2019 )

Pare fantasia, ma è tutto vero.

Sembrano in dieci questi ragazzi della marca trevigiana, neanche fossero i Godspeed You!Black Emperor. Invece sono solo tre: Michele Botteon, Ralph Rosolen e Dario Lot, rispettivamente chitarra, tastiere e batteria.

Si chiamano Ginah, fanno musica strumentale, la loro sala prove sta all’interno di una falegnameria: è un piccolo spazio ricavato costruendosi da soli delle pareti di legno.

E forse fu per gioco o forse per amore, decidono un giorno di uscire dall’antro e di mettersi a suonare nella falegnameria, in mezzo ai macchinari. Registrano tutto in presa diretta, e come va e come va e come va va.

Ne fanno un disco autoprodotto – il loro secondo - intitolato “Meccanica”.

Ci provano gusto, intanto. E per il resto, se piace bene, altrimenti va bene lo stesso: cosa fai, non mi vuoi, tanto è uguale. Con un’etica da diy-meets-emocore-muto imbastiscono trentasette minuti di post-qualcosa senza pensieri/senza problemi/senza tensioni/senza doveri/senza nessuno da sopportare/senza paure da superare.

Fino a qua tutto bene. Da lì in avanti, anche meglio.

Ora: questi trentasette minuti sono esattamente ciò che non ti aspetti da una jam nello scantinato. Contengono elementi estrapolati da ogni mondo possibile: il post-rock as we know it, vestigia sparse di prog, perfino schegge metalliche. Sequenze di accordi senza crepe, sbalzi o sbavature, giri chiusi attraversati dal contrappunto della chitarra e sorretti dai synth.

Nulla di approssimativo o rabberciato, anzi: cinque tracce che ti portano a spasso come, quando e dove vogliono. Scevro da complessità di qualsiasi ordine e grado, l’intero lavoro si lascia godere per quello che è: improvvisazione segnata da linee melodiche ben delineate, trame nitide, spostamenti calcolati. E’ emotività incorniciata da senso della misura.

Mi ricordano a tratti gli australiani Tangled Thoughts Of Leaving, talora perfino i Battles di John Stanier per la capacità che hanno di virare il ritmo in canzone. A partire dall’opener “Primavera”, sette minuti introdotti da un’ipotesi di pop-song squadrata e accomodante con un crescendo finale che mai ne sovrasta il rigore formale. Proseguendo con una “Rudy” più intasata, un ingorgo soffocante con la batteria a disegnare un ritmo zoppo sul quale la saturazione elettrica fa il resto. E se “Meccanica”, la title-track, è quasi uno stoner-rock che dilaga in un tema percussivo, “Agesilaus” assume connotati psych, evolvendo monocorde, stralunata e vagamente floydiana.

Per finire in gloria con le incatalogabili divagazioni di “Polvere”: un quarto d’ora che esordisce con un largo, si infila in una parte centrale ambient/noise scossa da disturbi e interferenze, si incunea in un tribalismo incupito percorso dalla mesta figura in minore della chitarra, cala il sipario su un registro indolente e statico senza che accada quasi nulla.

Ma è un nulla che ti risucchia, un’onda lunga e lenta, un’emozione sempre più indefinibile. (Manuel Maverna)