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THE SWEET LIFE SOCIETY  "Manifesto!"
   (2019 )

Dal punto di osservazione disincantato della mera contemporaneità della proposta, questo è davvero un gran disco.

Proseguo con un: questo non è il mio genere.

Ma devo insistere col mio più sincero peàna: “Manifesto!”, terzo lavoro in studio di The Sweet Life Society, progetto varato in tempi non lontani dai producer torinesi Gabriele Concas e Matteo Marini e successivamente allargatosi fino a divenire un’entità fluttuante e aperta, mi ha mandato fuori di testa.

Ha suoni perfetti per calzare come un guanto ai tempi che descrive con parole scomode ed intrise a tratti di un disincantato pessimismo.

Ha un impianto imbastardito che impasta dubstep, hip-hop, downtempo, lounge, grime in un meticciato very londinese che funziona egregiamente qualsiasi cosa azzardi. Drum machine & svolazzi, doppie e triple voci in una continuo traboccare di preziosismi e varietà.

In apertura, il primo singolo “Better than that” è pura frenesia, una bordata à la Sons Of Kemet con un sax devastante a puntellarne il groove; sparse come indizi in una trama intricata ci sono le voci di Giulietta Passera e di Moreno Turi (Emenél) a dar vita ad un piccolo mondo moderno che va dai Thievery Corporation ai Coma_Cose senza batter ciglio o perdere colpi, nemmeno quando dietro ad un angolo trovi i Cacao Mental nella sarabanda new-latin di “Astrocumbia”. L’incantesimo mediorientale di “Ya maila”, affidato alla vocalist siriana Mirna Kassis ed agli arabeschi del collettivo stradaiolo Al Raseef, si cela tra le pieghe di un album coraggioso e ondivago, che caracolla tra inglese e italiano come fossero parte di un unico linguaggio universale.

Un album che gioca coi calembour di “Parlano d’amore”, si incattivisce nell’inacidita “Sopravvivo”, si incunea nel beat sintetico à la Koop di “History teaches”, è capace di una “Spread love” con passo da singalong estivo, sospesa da un intermezzo di fiati, poi ripresa, poi di nuovo dissolta. Ma che sa anche mischiare tutto il possibile nell’alternanza spiazzante – lingue, ritmi ed altro – di “Not a game”.

Parrebbe la fiera degli eccessi, ma nell’economia di “Manifesto!” tutto è concesso: una sorta di patchanka aggiornatissima, escalation non lineare che invoglia alla scoperta ed invita al riascolto compulsivo.

Chiudono sui sette minuti da standing ovation di “Keep the words true”, nu jazz for the masses (forse il fil rouge?) che ti ingoia tra il pulsare trip-hop del basso ed una tromba tanto sfacciata da prendersi tutta la scena. Ad un certo punto mi viene quasi da cantare “Karmacoma”, ed è l’estasi.

Il solo limite è che non saprei definire in alcun modo cosa io abbia effettivamente ascoltato in questi quarantasei minuti: come se l’identità della band risiedesse nella apparente mancanza di identità di un disco indefinibile, o magari viceversa. Un po’ come i C’mon Tigre, ad un livello di analisi differente.

Ma questo è un passaggio troppo complesso, e lo lascerò perdere, perchè - in fondo - è del tutto ininfluente.

Gran disco. (Manuel Maverna)