recensioni dischi
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EILEEN SOL  "Iconoclasta"
   (2019 )

Tra i molti dischi che si possiedono, ve ne sono alcuni nei confronti dei quali capita di nutrire un affetto maniacale, quasi feticista.

Un posto di riguardo lo riservo ad un cd acquistato un paio d’anni fa nel mio personale tempio qui a Milano, luogo sacrale da una vita intera: Metropolis in via Esterle, tanto per fare pubblicità non occulta. Lo considero meta di pellegrinaggio, al pari di Buscemi in corso Magenta e di Record Runners a Genova, zona porto.

L’album – usatissimo, a giudicare dallo stato della copertina – è “Mirrored” dei Battles, supergruppo fondato una dozzina d’anni fa dal batterista degli Helmet John Stanier e dal chitarrista dei Don Caballero Ian Williams. Pagato non più di cinque euro, ma probabilmente intorno ai tre. A renderlo oggetto di culto, oltre al ritrovamento fortunoso tra migliaia di altri cd ed al prezzo stracciatissimo, c’è il fatto discretamente incontestabile che si tratti di un mezzo capolavoro. Cioè: un disco geniale, di una bellezza non facile da cogliere, ma maestosa. E tecnicamente suonato con maestria impressionante.

Ecco, tutto questo bel pistolotto per dire che ogni tanto, parlando di qualche disco qua e là, mi capita di cogliere nel lavoro di turno qualche scintilla del genio che abita “Mirrored”.

Leggasi: un impasto improbabile di post-rock, prog, contemporanea, hard rock, jazz e follia. Ma altre opinioni sono ben accette, ed è possibile che tra le dieci tracce di “Iconoclasta”, debutto autoprodotto dei fiorentini Eileen Sol introdotto dal prezioso artwork di copertina dell’artista ucraina Dasha Pliska, ci sia posto per le vostre idee, suggestioni, ipotesi.

Eileen Sol sono in quattro: il fondatore Matteo Cavaciocchi al basso, Nicola Benetti alla batteria, Pietro Guarracino e Michele Marchiani alla chitarra. I primi tre si sono conosciuti al conservatorio di Bologna al corso di jazz, e non è un caso.

Superficialmente, si potrebbe derubricare “Iconoclasta” all’ennesima scheggia di post-rock strumentale, ché tanto sotto quella sigla sta di casa tutto ed il suo contrario. Salvo accorgersi che dista anni luce dal canone replicato all’infinito – intro lenta, crescendo graduale, deflagrazione assordante, parte centrale riflessiva, nuovo crescendo, gran finale - da nomi blasonati: scozzesi, italiani o canadesi che siano.

Qui si tratta – più che di generi, sottogeneri, categorie e schemi preconfezionati – di arte concettuale: il fil rouge narrativo (di un album muto, peraltro) è un concept fantasioso sulla problematica relazione tra un giovane e l’eroe che lo salva. Ma è la musica in sé a seguire direzioni non lineari. Imprevedibili, con piccole deviazioni dal sentiero appena tracciato e subito cancellato. Ha qualcosa dei Ronin. Non nella forma, che è comunque aspra, ruvida e ritmica: nelle intenzioni, piuttosto. Nel senso che non si accontenta di giocare sulla tensione o sull’emotività del quadro generale. Il quadro lo dipinge a piccoli tratti: a te completarlo, unisci i puntini e indovina cosa apparirà.

Prevalentemente: fanno rumore, e anche parecchio, ma nonostante il fragore riescono sempre a portarti altrove, spostando ad arte un centro di gravità permanente che non riesci a trovare.

La title track è Primus e Battles insieme: la scintilla, appunto. Esplora un unico accordo per un paio di minuti, poi inventa qualcosa, una chitarra flangerata, col finale impro-jazz di altri due minuti per soli jam di batteria & vocalizzi femminili, gli stessi che percorrono “Elevazione” in una sinfonia ondivaga ed inafferrabile. “All’inferno” è math roboante, ma individua comunque il modo per creare-nel-già-creato, aprendo spiragli laddove tutto appariva compiuto: che sia un break, un arpeggio, una nuova svolta da indicare, un indizio da seguire, un’intuizione da sviluppare ed attorcigliare su un canovaccio, qualcosa inevitabilmente ti sorprende alle spalle.

Magari è la cadenza ossessiva di “Nostomania”, o le continue variazioni in itinere di “Dalla luna”, o ancora lo struggente rallentamento – in saturo crescendo sì, ma è il novantesimo minuto e non ci pensavi più: geniale anche questo, o no? – della conclusiva “Fuori dal guscio”.

O forse – come i Battles, no? - è soltanto il fascino sottile nascosto tra le pieghe di un lavoro complesso, sfaccettato, articolato e complessivamente colto, che cela sotto strati di elettricità elaborata una inaspettata grazia. (Manuel Maverna)