recensioni dischi
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LUZI  "LuZi"
   (2019 )

Il gioco lo chiamo rimestare nel torbido.

Come Cesare Basile, come Nick Cave, come Vinicio Capossela. Come gli OvO, come i Luminal, come David Eugene Edwards. Forse in fondo è tutta una questione di murder ballads: vita & morte, tanto per dire.

Dai reconditi recessi di una palude stigia di fango e tetraggine giunge il salmodiare sghembo di Andrea Lesignoli, in arte LuZi, one-man-band parmigiano che porta a spasso in un immaginario non del tutto immaginario le sue figure spettrali, un suggestivo bestiario semi-mitologico che impasta vero e presunto, leggenda e realtà.

Il provvido connubio tra dialetto e oscurità della scrittura sa di stregoneria almeno tanto quanto certo Van De Sfroos, quello capace di farsi più buio della notte quando si intrufola nei meandri dell’occulto. Ma mi ricorda anche un Manuel Bongiorni privato totalmente dell’abituale sardonica irriverenza.

Scarno, ruvido, inquieto, vagamente sciamanico, l’album è morbosamente haunting.

I forti legami col territorio – “Satiri e ninfe in Val Ceno”, “Petra Corva”, “Dedlà da l’àcua (l’Oltretorrente)” - rendono vivida e visibile questa poetica ribollente di situazioni e personaggi imbottiti di un paganesimo astratto e di un’anima sordida quanto basta a farne sinistra narrazione orfica.

Il suono è sporco, spesso torbido e gracchiante, con voci distorte, doppiate, storpiate da effetti, immerse in un’atmosfera raggelante: spezzati in vari tronconi, i sei minuti e mezzo di “Roccalanzona”, altro pregevole spaccato di geografia misterica, ricordano quelle ballate mortifere e malaticce degli Handsome Family; “Fumara” chiude con una stralunata filastrocca su un bluesaccio sgangherato à la Tom Waits; “La lon’na” imbastisce uno shuffle allucinato su un tema antico come il mondo.

Nero come pece, sincero e pensato, questo disco è un’opera affatto immediata, a tratti impenetrabile; rilegge tradizione e arcani mischiando folk essenziale in minore e schegge di black metal, come nella demoniaca aria sfigurata de “La ma lumiara” (mutata d’improvviso in una dolce nenia) o nell’epitaffio – in ogni senso – della conclusiva “Verdi è morto”.

Non so stabilire con certezza un confine, se cioè più mi attragga o mi spaventi. Ma è, indubbiamente, qualcosa di diverso.

Geniale, nel suo piccolo mondo ancestrale ed esoterico. (Manuel Maverna)