recensioni dischi
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PARK JIHA  "Philos"
   (2019 )

Ben oltre la colta raffinatezza che ne contraddistingue il prezioso lavoro e l’algida bellezza che ne fa un’icona minore di un piccolo mondo a parte, quella dell’artista coreana Park Jiha – al secondo passo su Tak:til/Glitterbeat Records dopo l’esordio di “Communion” soltanto un anno fa – è una riflessione articolata e variegata che ingloba e coinvolge aspetti legati a recupero e rilettura di ineludibili elementi etnici e socio-culturali.

In “Philos” scavo profondo e ricerca si traducono in otto tracce - sette strumentali e la poesia “Easy”, affidata al recitativo dell’autrice libanese Dima El Sayed – che intrecciano suggestioni minimaliste (“Arrival”, vertice di garbata sperimentazione), divagazioni limitrofe a territori di jazz cameristico e variazioni capaci di lambire con apparente nonchalance musica contemporanea, ambient ed avanguardia morbida.

Park vivifica un diorama di brillante nitidezza, scenario statico punteggiato da una espressività al contempo suadente e sfuggente, vibrante ed ossessivamente melodiosa, sempre sottilmente evocativa: forte di una strumentazione ancorata alla nativa tradizione – protagonisti il piri (sorta di oboe), il saenghwang (organo a bocca) e lo yanggeum (un dulcimer martellato) – accompagna la danza frenetica di “Thunder shower” con un’ipnotico sentore di carillon - mai festoso, ma palpitante – e la title-track con una sobria eleganza antica che reca con sé profumi e colori d’ailleurs.

Altrove il linguaggio si fa più languido e trasognato, melanconico e mesto. I due minuti di “Pause”, cesura dolente che funge da preludio ad una seconda parte dell’album libera di vagare al di là di una cerebralità comunque penetrabile, aprono la strada ad armonie tanto diafane ed impalpabili quanto deliziose nell’insistita ricerca della ripetizione mantrica che le innerva, mentre la più lunga e complessa “Walker: in Seoul” acquista una valenza quasi cinematografica, tra note staccate che ricamano arabeschi e riecheggiano in una sorta di estatica trance minimalista.

Le due tracce conclusive (“When I think of her” e “On water”) richiamano atmosfere memori perfino di Metheny, Abercrombie, Frisell, arie rarefatte digradanti in una chiusura delicata e carezzevole come una ninna nanna d’altri tempi, culmine implosivo di una escalation rovesciata, interregno fiabesco che segna il trionfo immaginifico di una distillata, ammaliante purezza. (Manuel Maverna)