recensioni dischi
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ANATOLIAN WEAPONS FEAT. SEIRIOS SAVVAIDIS  "To the mother of gods"
   (2019 )

La struttura ripetitiva di molta musica elettronica, ha elementi in comune con le musiche folk, e la loro funzione aggregatrice. Tenendo questo concetto in mente, si capisce bene la scelta del dj produttore greco Aggelos Baltas, nel suo nuovo progetto Anatolian Weapons, di collaborare con Seirios Savvaidis, musicista compatriota fautore di un folk rock psichedelico molto personale. Il risultato di questo incontro sta in “To the mother of gods”, album (appena uscito per Beats In Space Records) che in otto tracce ci fa viaggiare in una terra azzurra. “Tarachti katarrachti”, su fondo etereo, ospita la voce di Seirios, che canta appoggiandosi principalmente sulla nota principale dell’armonia, e un tono sotto, toccando la settima minore. Questo, sopra un giro di basso reiterato senza modifiche, e accanto ad un tamburello, rende un’atmosfera rituale e ipnotica. L’ipnosi torna in “Kalesma”, dove la melodia cantata dondola su un bordone suggestivo. La titletrack invece, con un loop di batteria funk e un fiato agitato, è un trip dove la chitarra, densa di riverbero, non insegue note blues, come si farebbe ad Ovest, bensì su scale diverse, e l’effetto somiglia a quello di certi passaggi dei lavori dei primi anni ‘70 di Battiato. Se il sentore di ammiccare il chillout è latente finora, si palesa esplicitamente con “Ofiodaimon”, che inizia con pad (ma usiamo pure la traduzione letterale italiana di “pad”: cuscini). I cuscini sonori e cangianti ci accompagnano tutto il tempo, mentre la processione continua, come una preghiera. “Chaire eos” invece, come sonorità generale, nonostante il fiato etnico e la melodia cantata su scala misolidia, sembra essere un pezzo più alternative rock, un incontro fra Occidente ed Oriente. La chitarra diventa acustica in “Ston stavraito”, ma prosegue la consistenza onirica e impalpabile, e sempre statica. Con poche note di pianoforte, “Limnothalassa” evoca un mondo, sopra arpeggi di chitarra acustica. Forse evoca la vastità del mare, dato che “thalassa” (l’unica parola che so in greco) significa “mare”. Ed è così, per il crescendo di intensità e per la voce che mugola, senza profferire parole, come per un nodo alla gola. Davvero l’episodio più emozionante del viaggio, che si conclude con “Tarachti katarrachti (reprise)”, dove torna il fondo etereo dell’inizio, ma con la voce principale nascosta (sommersa) nel fondale, e poche note di pianoforte. Un lavoro evocativo e con una propria personalità, che si fa ricordare. (Gilberto Ongaro)