recensioni dischi
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ANTWOOD  "Delphi"
   (2019 )

Tristan Douglas collabora con la propria fidanzata Olivia Dreisinger per dar vita al terzo LP a nome Antwood, intitolato Delphi (uscito per Planet Mu Records), che è anche personaggio fittizio, protagonista della storia narrata nel disco, una amante disperata che è filtro e realizzazione di ciò che Douglas e compagna hanno provato nelle loro esistenze fino a oggi.

Sorta di concept album sull’amore in questi tempi aliena(n)ti e tecnocratici, il nuovo album di Antwood finisce per diventare anche un romanzo musicale strettamente moderno e claustrofobico, un manifesto di paure, inquietudini e (poche) speranze che guarda all’oggi come a un labirinto nel quale è d’obbligo ritagliarsi un piccolo spazio per ribadire e far valere le proprie diversità e qualità. Già i titoli dei brani suggeriscono quell’alienazione che nel presente è segno indelebile e innegabile di quasi ogni persona: lo “Skype Ghost”, voce femminile che è Delphi ma anche una presenza aliena e computerizzata, sfocia nell’elettronica drone e spaventosa di “Club Dread”, mondo alternativo dove l’io spaventato e frammentato si rifugia costruendo la propria capanna. Ma è dopo la presentazione – labirintica e multiforme – in “Delphi” dell’omonimo personaggio e la cavalcata in mezzo al nulla di “Queasy” che giunge un messaggio ostile, con “Hostile Message” che diviene chiave di volta e fase cruciale del racconto, quando le fantasie radicate in Delphi iniziano a sgretolarsi perché il mondo fittizio nel quale si era nascosta non è come sembra.

Ma siamo appena a metà. Dopo una prima parte inquietante ma tutto sommato piena di vitalità e tentativi, il labirinto globalizzato di macchine e suoni intrappola Delphi in “Portal”. L’unica soluzione percorribile è ritornare a un passato lontano, a quel residuo di religione – che è, alla latina, superstizione e mitologia, “re-lego”, metto da parte, per porre nuove basi nelle quali credere – che permarrà, forse, anche nella cultura più meccanizzata e robotica che si possa immaginare, quell’impalcatura di pensiero e speranza del quale neppure il marxismo riuscì mai a venire a capo. Ma l’in-umano può essere anche liberazione, sia chiaro: in questa misura, riflessioni come “Cave Moth” possono ricordare che l’amore è fonte di molto ma non è mai sinonimo di libertà, e il raggiungimento di essa comporta sacrifici e azioni non sempre coerenti.

Il problema è che siamo ormai dentro a una narrazione contorta, inaffidabile, ambiguamente tratteggiata dalla psiche confusa di Delfi, che ci conduce sempre di più all’interno dei suoi tunnel mentali. Oggetti e pensieri, realtà e finzione si mescolano rendendo tutto offuscato, un po’ come il computer rendering di Paulin Rogues, parte dell’artwork del disco, rappresentante monumenti di Delfi in parte reali e in parte immaginati. È la “Ecstatic Dance” di Delphi personaggio, luogo forse solo concettuale dove elementi come la “Castalian Fountain” divengono topografie possibili.

Le conclusive, e più dolci, quasi new age, “Delphi’s Song” e “Some Dust”, dove la voce (Delphi? Un computer che emula una donna reale?) ritorna e chiude, non senza dubbi e indecisioni, la narrazione, non portano avanti la storia, non dissolvono il loop, non rispondono a tutto. E credo sia questo il grande merito di Antwood. (Samuele Conficoni)