recensioni dischi
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''BLUE'' GENE TYRANNY  "Out of the blue"
   (2019 )

Dopo più di quarant’anni, il disco d’esordio di “Blue” Gene Tyranny “Out of the Blue”, del 1978, viene rimasterizzato e ripubblicato grazie alla Unseen Worlds Records. E dopo quarant’anni, mantiene intatto il suo segreto, il suo mistero. Bisogna però capire chi è Gene Tyranny, al secolo Robert Sheff. Compositore texano, ha collaborato con nomi del calibro di John Cage e Robert Ashley. Al suo esordio, questo disco si presenta con 4 brani, in cui le coordinate stilistiche si mescolano in maniera imprevedibile, riuscendo però a mantenere una sorprendente leggerezza di fondo. Ed ancora oggi, nonostante molti suoni risultino chiaramente datati, come quelli del PolyMoog suonato da Gene, il lavoro nel suo complesso risulta ancora straniante ed intrigante. Il primo capitolo, “Next time might be your time”, dura 8 minuti ma suona come una canzone pop, dal riff di chitarra simil country. L’arrangiamento è completato da un tappeto stellare di tastiera, che ben poco ha a che fare con le lande dei cowboy. La voce femminile (Patrice Manget) canta con un approccio incantato. I primi sei minuti scorrono su un tempo moderato, con un clima sereno e un senso di felicità, che poi si trasforma in una corsa quasi comica. Con senso dell’umorismo, la musica è puntellata da note di sassofono e flauto. Il secondo episodio è strumentale, “For David K”, e cambia direzione. Un’introduzione quasi prog, avvia invece un groove dalla radice funk, intervallata dal paradiso synth di Tyranny. “Leading a double life” è il pezzo più spoglio, ma non per questo meno inafferrabile… anzi forse proprio per questo. Un pianoforte suonato con calore, si incrocia con glaciali note di synth, e la voce femminile tesse un coro pseudo gospel, ma non c’è traccia di testo religioso. La doppia vita del testo è rappresentata dalla dualità della musica. Ed infine il quarto capitolo diventa la summa di tutte le cose che non quadrano di questo disco, il fulcro centrale: “A letter from home”, di quasi 26 minuti. Ci accoglie un treno in corsa, dove gli archi imitano l’incedere rombante sulle rotaie. Per tutto il tempo, una corda di arco (sintetico) resta statica sullo sfondo, mantenendo alta la tensione. I cori femminili diventano surreali, così come i suoni di synth, dapprima cristallini e poi ruvidi. Sembra di percepire degli… zoccoli di cavallo, che a fine viaggio si rivelano dei disturbi elettronici sapientemente elaborati. Una voce inframmezza le zone del brano con la lettura di una lettera. Tutto ciò che viene aperto dal brano, prima o poi viene chiuso: la lettura, il treno che riparte, i cori, e lentissimamente anche lo sfondo teso costante. Solo una cosa non si chiude, l’interrogativo che si pone l’ascoltatore: “Che cosa ho appena ascoltato?”. E se dopo più di quarant’anni la domanda non trova risposta, ma il fascino e la voglia di chiedersela permangono, vuol dire che siamo di fronte a qualcosa di intergenerazionale, da tramandare come una testimonianza della musica sperimentale che incontra le istanze pop nella maniera più creativa e meno ruffiana possibile, senza per questo risultare inaccessibile. (Gilberto Ongaro)