recensioni dischi
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CHARLES MINGUS  "Oh yeah"
   (1961 )

Discriminato tra i bianchi in quanto nero, ma anche tra i neri in quanto non abbastanza nero. Troppo diretto e sanguigno per entrare di diritto, possibilmente vivente, nell’olimpo dei geni del jazz, ma allo stesso tempo troppo sperimentatore per conquistare facilmente un pubblico di bocca buona.

Una vita segnata dal complesso del “bastardo”, al punto che la sua ormai famosa e impietosa autobiografia ha come titolo “Beneath the Underdog”, che per quanto sia stato gentilmente tradotto in “Ai margini del ghetto”, più o meno corrisponde a “Peggio di un cane bastardo”. Bastardo o no, certamente fu un cane sciolto, nel senso più nobile dell’espressione.

Assolutamente impossibile incasellarlo in una delle correnti jazz che marcarono gli anni ’50, decennio in cui si mise in luce. Del resto lui stesso rifiutava ogni etichetta, compresa quella di sperimentatore, che forse sarebbe stata la più vicina alla realtà. La sua musica, viscerale ma per niente facile, scaturiva da una disperata necessità di espressione, che a sua volta nasceva da una personalità complessa e tormentata, di cui il “complesso del bastardo” era solo uno dei tanti aspetti.

Poche volte come in questo caso le parole dello stesso Mingus, citate nelle note di copertina del disco, aiutano a comprendere ciò che poi ascolteremo, per cui vale la pena di riportarle. “Non è più una questione di colore, è qualcosa al di sopra di questo. Intendo dire che sta diventando sempre più difficile per l’uomo amare davvero. E sempre meno uomini stanno facendo un vero sforzo per scoprire chi sono esattamente e basarsi su tale conoscenza. La maggior parte della gente è costretta a fare per tutto il tempo cose che non vuole, e arriva al punto in cui sente di non aver più alcuna scelta. Noi creiamo la nostra schiavitù, ma io ce la farò e scoprirò che genere di uomo sono – o morirò”.

La traduzione è mia, quindi può contenere inesattezze, anche se più o meno rende l’idea. La traduzione di queste parole in musica invece è perfetta, e si realizza in gran parte dei dischi di Charles Mingus, ma forse mai in modo così lampante come in questo “Oh Yeah” (1961). Intanto, colui che ha contribuito più di ogni altro ad elevare il contrabbasso a strumento protagonista nelle formazioni jazz, qui neanche lo sfiora. Siede al pianoforte con il tipico stile sobrio di chi, più che pianista virtuoso, è soprattutto compositore e leader della band.

La sua tastiera ideale è formata dai musicisti che lo accompagnano, già validi presi uno per uno, ma addirittura fenomenali nel momento in cui si crea una perfetta sintonia con il leader. Per ottenere questo risultato Mingus non impone regole ferree, ma al contrario si limita a tracciare una specie di “quadro emozionale” al cui interno i musicisti possono muoversi liberamente, in particolare negli assoli. Nessuna nota scritta: ciascuno dia il meglio di sé stesso, purché il brano trasmetta quel dato sentimento che il suo autore richiede.

A dirlo sembra facile, ma per farlo ci vuole gente come il polistrumentista Roland Kirk, che non contento di far sentire tutte le più classiche voci dei fiati jazz, ci aggiunge anche quelle di due strumenti inconsueti, come lo “strich”, variante del sax soprano, e il “manzello”, strano sax con estremità rigonfia, a campana. O come il bassista Doug Watkins, in grado di sostenere perfettamente la parte che di regola sarebbe spettata al suo leader, il più geniale dei bassisti. E come non rammentare la voce da brivido, a tratti quasi umana, del trombone di Jimmy Knepper, con i suoi preziosi interventi? Completano la formazione Booker Ervin al sax tenore e il già collaudato Dannie Richmond alla batteria.

“Hog Callin’ Blues” apre il disco con un grande sfoggio di bravura di Roland Kirk, i cui numerosi strumenti folleggiano strillando, ragliando e perfino grufolando (il titolo è “Blues del verso del porco”). Un bel bailamme di suoni, ma innestato su di una robusta base blues, veloce e trascinante. Caos apparente, ma in realtà mai un suono fuori posto; per certi versi un anticipo di ciò che saprà fare Frank Zappa nel rock alcuni anni dopo.

Più classico è il blues “Devil Woman”, nel quale all’inizio possiamo apprezzare anche un raro Mingus cantante sul serio, oltre ai suoi consueti urlacci, cacciati fuori nei momenti topici dei brani strumentali. Qui in primo piano è lo splendido dialogo tra i due sax tenori di Roland Kirk e Booker Ervin, ma l’assolo del trombone di Jimmy Knepper, a cui davvero per essere umano manca solo la parola, non è da meno.

“Wham Bam Thank You Ma’am” è un piacevole swing veloce su cui si alternano il sax tenore di Ervin e l’acido e pungente “strich” di Kirk. “Ecclusiastic” è un pezzo originalissimo, in cui si fronteggiano più volte un blues iniziale molto lento e una scheggia impazzita di gospel, perfettamente eseguita dai fiati, che nell’occasione rievocano il suono di un organo da chiesa. ”Oh Lord Don’t Let Them Drop That Atomic Bomb On Me”, come dice il titolo, è una pura preghiera blues in cui all’inizio la sofferenza è espressa dalla voce di Mingus, quindi da uno dei suoi rari assoli di pianoforte e infine, così ci togliamo la curiosità, dal suono del “manzello”, lo strano sax con l’estremità a campana.

Verso la fine del disco emerge il lato più folle del genio di Mingus: “Eat That Chicken” sembra una parodia di jazz anni ’20, con una base nostalgicamente Dixieland su cui imperversano gli urli di Mingus e gli strilli isterici dei fiati. In realtà la Babele è solo apparente, e il brano non è solo divertente, ma possiede una sua buffa armonia. “Passions Of A Man” è un deciso salto che ci porta nettamente oltre i confini del jazz. E’ un orgia di note in libertà, sirene, fischi e suoni vari che fa pensare ad Edgar Varese, o addirittura a certi esperimenti rumoristici di Brian Eno. Di non facile digestione, ma assolutamente originale; una specie di personalissimo sigillo posto dall’autore a chiudere un disco particolarmente ispirato. (Luca "Grasshopper" Lapini)