recensioni dischi
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JAVVA  "Balance of decay"
   (2019 )

Sommamente contemporaneo nel suo mirabolante sincretismo fra istanze oggigiorno non più così disparate, “Balance of decay” segna il debutto su etichetta Antena Krzyku del quartetto polacco Javva. Il progetto, varato dal batterista Bartek Kapsa (già nei Something Like Elvis, dei quali giova ricordare almeno l’ottimo “Cigarette Smoke Phantom”), vede la collaborazione fra musicisti noti ed affermati non solo in patria, tutti provenienti da scenari differenti, ma con in comune una attitudine condivisa verso sperimentazione tout court ed apertura a contaminazioni post, afro, avant.

Oltre al chitarrista Piotr Bukowski (già Hokei e Xenony) completano il quartetto il bassista Mikolaj Zielinski, del quale va ricordata la lunga militanza nel collettivo Alameda Organisation, ed il cantante e tastierista Lukasz Jedrzejczak, protagonista nell’act di impostazione elettronica T’ien Lai.

Antitesi di qualsivoglia declinazione di algida staticità, “Balance of decay” è un piccolo capolavoro di frenesia solo in parte addomesticata, qualcosa fra Dirty Projectors e White Rabbits, sebbene non privo di citazioni, riferimenti e rimandi ad anni sessanta e settanta. Dominio incontrastato della ritmica, l’album è segnato indelebilmente da un insistito ricorso a figure continuamente spezzate e frammentate sulle quali si innestano un chitarrismo nervoso e sovraesposto (“Ancaman”) e frequenze basse che tutto ingoiano in un maelstrom ipercinetico.

Inesauribile fucina di idee e variazioni su temi di continuo accennati e sovvertiti, il disco si sviluppa magistralmente tra echi pinkfloydiani, tentazioni prog aggiornate ai tempi, rimembranze dei Police più complessi (una prodigiosa “Bangau”), escursioni importanti in territori etno (“Kua fu”), suggestioni d’antan che lambiscono con nonchalance Steely Dan e XTC.

In apertura, “Pad eye remover” è per tre minuti addirittura post-punk nevrotico tra Stranglers e Pere Ubu - con basso incalzante ed un canto sgolato che richiama perfino certo Roger Waters inacidito - prima di mutare registro a metà incuneandosi in un dedalo di percussioni ed accenti tropicali; identica sorte tocca alla successiva “Sentinel”, introdotta da un synth quasi chiesastico à la John Lord e poi ingoiata in un vortice di elettricità disturbata, alla ubriacante modulazione di “Erebus” con i suoi cambi di tonalità in un sabba da Shellac, o alla spiazzante ossessività di “Fernandes”, spenta in una coda sospesa à la Slint.

Sfuggenti, inclassificabili: volendoli per forza accostare a qualcosa di noto, si potrebbero avvicinare – per ricercatezza, intenti, elaborata raffinatezza e supremo gusto per il depistaggio - ai Talking Heads o, per restare in tempi più recenti, a The Somnambulist (“Pan American”), ogni traccia sviando l’attenzione dalla strada maestra, ammesso che ve ne sia una.

In “Balance of decay” a colpire è la capacità di tenere desto l’interesse mentre gioca con un taglio piuttosto elitario: musica colta che suona pop in un suo modo elegante ed accessibile, senza svendersi o declassarsi al rango di musica di facile consumo. Album complesso, sfaccettato, irrequieto, affascinante. (Manuel Maverna)