recensioni dischi
   torna all'elenco


JENNIFER GENTLE  "Jennifer Gentle"
   (2020 )

L’universo di Marco Fasolo si chiama Jennifer Gentle, e in questo omonimo album, arrivato a ben 13 anni dall’ultimo disco in studio, si esprime nella sua completezza e ricchezza. Diciassette canzoni variopinte, in cui non solo la composizione ma anche la produzione passa sotto il controllo di Fasolo. Dunque anche le scelte di mix sono fatte con un criterio estetico che coincide a quello del musicista. Non è così scontato che questa corrispondenza possa sempre verificarsi. La cura estrema si avverte in ogni scelta timbrica e di stile, e seppur i generi dei brani siano abbastanza disparati, ciò che tiene unito l’album è una scelta per particolari progressioni armoniche sognanti, cambi da accordi maggiori ad altri fuori tonalità ma spesso ancora maggiori. Una gioia diffusa in un senso di magico. A partire dall’introduttiva “Oscuro”, per chitarra tenue e voce soave. “Just because” procede in questa direzione idilliaca, mentre “Beautiful girl” avvia un country rock, con tanto di voce messa in slapback (effetto tipico per evocare quel riverbero rapido da Elvis e da Bruce Springsteen). “Love you Joy” è un allegro strumentale con suoni simpatici à la Oliver Onions. Il fondo elettronico di “Temptation” sembra deviare nella new wave, ma l’atmosfera è troppo luminosa e barrettiana, per portare in quel grigiore anni ‘80. Il pop rock di “Guilty” ha tutta l’evidenza di un’intenzione glam, mentre il breve intermezzo “Argento” sono 47 secondi di puro paradiso per pianoforte, violoncello e cori sospirati, che introducono “Only in Heaven”, che come da titolo, danza soffice con un ritmo swing, tra accordi diminuiti che ci lasciano sospesi. Un triplo salto carpiato ci catapulta in “Do you hear me now?”, frenetico rock and roll con tanto di cori in falsetto e fiati rombanti. Ora che ci siamo risvegliati, si continua a correre con “You know why”. Il sound è tanto anni ’60, c’è pure il cimbalo tanto amato dalla beat generation. La cura maniacale emerge anche nella bellezza del suono di basso, evidente nell’andante malinconico “What in the world”. Con “More than ever” torniamo a sognare, fra progressioni pindariche e suoni gentili come Jennifer. Ma il concept album a questo punto apre una parentesi problematica: “My inner self”. Entrando nell’interiorità, cambiano anche i suoni, più scuri, minacciosi, ossessivi e ripetitivi. Al contrario di quanto udito sinora, il battito è ostinato così come le note basse ribattute sempre uguali, e le tastiere dissonanti, e la voce ripete bassa: “My inner self comanding”. “Swine herd” ci riporta al sound rassicurante e vagamente vintage a cui ci eravamo abituati, e ce lo concede per 8 minuti. Secondo capitolo dissonante “Spectrum”, che regala allucinazioni sonore. “Where are you” è un altro episodio tra suoni impalpabili synth, pianoforte e un sapore britannico. E infine, rimbocchiamo le coperte per la notturna “Theme”, costituita principalmente da lievi cori. Jennifer Gentle è mosso da una personalità definita e che allevia l’esistenza. (Gilberto Ongaro)